L’onere della prova nella responsabilità sanitaria

02 marzo 2018

 RIVISTE WOLTERS KLUWER

L’onere della prova nella responsabilità sanitaria

La responsabilità medica è un settore in divenire. Ciò è dimostrato dal recente dibattito sulla natura con-trattuale o aquiliana della responsabilità della struttura sanitaria e del medico c.d. dipendente, nonché sui criteri di distribuzione dell’onere della prova tra le parti nei giudizi di medical malpratice. Sotto quest’ultimo profilo la giurisprudenza, valorizzando il proprio ruolo creativo, ha nel corso del tempo ridisegnato e modi-ficato le regole in materia di ripartizione degli oneri probatori in ambito sanitario. Sembra, però, fondamen-tale una più corretta e precisa individuazione della prestazione del sanitario e conseguentemente del con-tenuto della prova liberatoria che la struttura o il medico sono tenuti a fornire in giudizio: in questo conte-sto le linee guida possono essere un utile strumento al fine di verificare l’esattezza dell’adempimento dei soggetti coinvolti.

La natura della responsabilità sanitaria: il doppio binario alla luce della legge Balduzzi e della legge Gelli

Il settore della responsabilità medica si contraddistingue per essere caratterizzato da regole peculiari, tanto che autorevole dottrina ha definito la responsabilità sanitaria “un sottosistema della responsabilità civile”[1]. La peculiarità di tale sottosistema è ben dimostrata dal recente dibattito sulla natura contrattuale o aquiliana della responsabilità della struttura sanitaria e del medico c.d. dipendente, nonché sui criteri di imputazione di tale responsabilità e sulla distribuzione dell’onere della prova tra le parti nei giudizi di medical malpractice.

Con riferimento alla struttura pubblica e privata non vi sono dubbi sulla natura contrattuale della citata responsabilità. Dopo aver superato, infatti, la qualificazione del rapporto paziente-struttura in termini di contratto d’opera professionale[2], la giurisprudenza ha delineato una nuova tipologia negoziale, definita alternativamente contratto di assistenza sanitaria (con un implicito richiamo all’art. 18 della L. n. 833/1978) o contratto di spedalità[3]. Quest’ultima ricostruzione è stata, altresì, avallata dalla Corte di cassazione nella sua più alta composizione[4], la quale ha messo in luce il carattere composito dell’obbligazione ospedaliera. L’ente sanitario non si obbliga solamente a prestare, tramite i propri ausiliari, assistenza medica, ma anche a fornire vitto e alloggio, assicurare la sicurezza degli impianti, garantire ogni altra attrezzatura che sia necessaria per la cura e la riabilitazione del paziente.

Ogni disquisizione sulla responsabilità della struttura sanitaria non sembra aver interessato la L. n. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi), che ha concentrato l’attenzione, peraltro implicitamente, solo sulla natura della responsabilità del c.d. “esercente la professione sanitaria”, senza dedicare attenzione agli enti ospedalieri, che rimangono sullo sfondo dell’intervento legislativo[5].

Al contrario la natura della responsabilità delle strutture sanitarie è stato oggetto di interesse da parte della recentissima L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d legge Gelli)[6] che - all’art. 7 - regola, come emerge dalla rubrica della norma, la “Responsabilità della struttura e dell’esercente la professione sanitaria”.

Secondo il citato art. 7, “la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose”. Il comma 2 aggiunge, poi, che “la disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina”.

La novella legislativa delinea, quindi, un modello di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, la quale risponde nei casi in cui l’inadempimento riguardi obbligazioni proprie dell’ente, nonché nei casi in cui l’inadempimento sia dipeso da un fatto del personale medico e paramedico che svolge la propria prestazione all’interno della struttura.

La legge Gelli sembra, invece, proporre un modello di responsabilità aquiliana per il medico c.d. dipendente. Il medesimo art. 7 infatti - al comma 3 - precisa che “l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile”. La norma però, così come modificata dal Senato in data 11 gennaio 2017 e approvata definitivamente alla Camera il 28 febbraio, esclude in modo espresso dal regime di cui all’art. 2043 c.c. l’ipotesi in cui il medico “abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”. Un’interpretazione sistematica della disposizione, che non voglia vanificare il riferimento alla lex aquilia compiuto dallo stesso art. 7, sembrerebbe suggerire che l’ultimo inciso del citato articolo si riferisca solo alle ipotesi in cui il medico abbia concluso un contratto d’opera professionale.

Tuttavia l’espressione “obbligazione contrattuale” introdotta dal Senato potrebbe essere oggetto di diverse interpretazioni, se si considera che fino al dibattito nato con la L. n. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi), la responsabilità del medico c.d. dipendente è stata inquadrata nell’alveo contrattuale, avendo la giurisprudenza di legittimità aderito alla tesi del c.d. “contatto sociale”[7]. A prescindere dalle disquisizioni sull’effettivo contenuto della prestazione del medico (di mera protezione o di vera e propria prestazione), la tesi del contatto sociale è stata generalmente avallata dalla Corte di cassazione e, anche se non sempre condivisa, è divenuta un punto certo in questo peculiare settore della responsabilità civile fino all’intervento legislativo del 2012.

L’art. 3 della L. n. 189/2012, con un ambiguo riferimento all’art. 2043 c.c., ha infatti riaperto il dibattito sulla natura contrattuale o aquiliana della responsabilità medica. Secondo tale disposizione, “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile”.

Prescindendo dagli aspetti penalistici e per ora rimandando il discorso sull’importanza delle linee guida al fine di valutare anche sotto il profilo civilistico la condotta del medico (su quest’ultimo punto si avrà modo di tornare nel corso della trattazione), ciò che emerge, con evidenza, nella lettura della norma è il riferimento all’art. 2043 c.c. e, quindi, alla possibilità di inquadrare come extracontrattuale la responsabilità del medico.

A quest’ultima tesi ha aderito parte della giurisprudenza[8] e autorevole dottrina[9], che ha richiamato la lettera della norma e la ratio dell’intervento legislativo, volto - come emerge dalla relazione illustrativa - a contenere il fenomeno della medicina difensiva. Infine, si è posta l’attenzione sulla scheda di lettura divulgata dal Servizio Studi del Senato ed associata ai lavori di conversione del decreto legge in esame, in cui è dato leggere che la responsabilità civile del medico viene “ricondotta nell’ambito della cosiddetta responsabilità extracontrattuale...”.

Non sono mancate, però, voci in senso contrario, che, invece, hanno evidenziato come “il riferimento alla lex aquilia potrebbe essere letto come il frutto del trascorrere dal piano penale a quello civile, ove il concetto di illiceità si lega indissolubilmente all’art. 2043 c.c.”[10]. L’espressione “resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c” non avrebbe lo scopo di inquadrare la responsabilità sanitaria nell’alveo extracontrattuale, ma solo di consentire al giudice civile, anche nei casi di applicazione dell’esimente penale, di risarcire il danno subito, pur tenendo conto della conformità dell’operato del medico alle linee guida ed alla letteratura scientifica[11].

In questo senso si è espressa anche la S.C.[12], la quale ha in più occasioni escluso che il riferimento della legge Balduzzi all’art. 2043 c.c. comporti la qualificazione in termini extracontrattuali della responsabilità del medico.

Tuttavia la novella legislativa (legge n. 24/2017, c.d. legge Gelli) sembra condurre verso un modello dualistico di responsabilità: contrattuale per la struttura sanitaria, aquiliana per il medico dipendente. Tuttavia, come già detto, rimane non chiaro l’ultimo inciso dell’art. 7, nella parte in cui fa salva l’ipotesi in cui il medico “abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”. Sotto questo profilo l’utilizzo di formule differenti, come per esempio “salvo l’ipotesi in cui il medico abbia concluso un contratto d’opera professionale”, sarebbero state preferibili, nonostante l’intento del legislatore sia chiaramente volto a ricondurre nell’alveo aquiliano la responsabilità del medico c.d. dipendente.

Ciò posto, non è scontato che una ricostruzione in chiave extracontrattuale della responsabilità del c.d. medico dipendente abbia gli effetti sperati sotto il profilo dell’overdeterrence, della sostenibilità del sistema dal punto di vista assicurativo e della riduzione del contenzioso da medical malpractice. La responsabilità della struttura continua ad essere contrattuale e l’ente ospedaliero risponde contrattualmente ex art. 1228 c.c. dei fatti dei propri ausiliari. In altri termini si dubita che un diverso regime di responsabilità per il medico dipendente comporti un cambiamento significativo. L’unico rischio potrebbe essere, infatti, quello di spostare l’attenzione da un soggetto (il medico) ad un altro, ovvero le strutture sanitarie, che si prestano a divenire le nuove protagoniste di questo peculiare settore della responsabilità civile. Peraltro - come evidenziato condivisibilmente da autorevole dottrina - non è da escludere che, anche nell’ambito di un’eventuale ricostruzione della responsabilità in chiave extracontrattuale, si possa giungere, “alla luce del principio di vicinanza della prova ed al meccanismo della res ipsa loquitur, a delineare un assetto probatorio diverso da quello che vorrebbe sempre e comunque il paziente gravato della prova della colpa del medico”[13].

Al contrario, si ritiene che in questo difficilissimo settore della responsabilità civile un aiuto possa arrivare da una più corretta e precisa individuazione della prestazione del sanitario e del contenuto della prova liberatoria in capo alla struttura che si trovi a rispondere dei fatti dei propri ausiliari.

In questo senso - come si avrà modo di spiegare nell’ultimo paragrafo - le linee guida e le buone pratiche accreditate (cui fa riferimento, seppure nell’ambito penale, la legge Balduzzi), pur tenendo in considerazione “le specificità del caso concreto” (così come previsto dalla recentissima legge Gelli), possono essere di aiuto nel tentare di trovare un equilibrio in questo particolare settore.

Il tema di fondo è, quindi, quello dell’onere della prova nella responsabilità sanitaria; e non solo e non tanto con riferimento alla distribuzione dei carichi probatori, ma al contenuto degli stessi.

Al fine di analizzare tali aspetti, è opportuno in via preliminare chiarire come le regole in materia di onere della prova nei giudizi in materia di responsabilità medica si siano evolute nel corso del tempo.

Dalla distinzione tra “interventi di facile e difficile esecuzione” alle Sezioni Unite n. 577/2008: breve itinerario giurisprudenziale

Gli elementi caratteristici delle regole in materia di responsabilità medica sono da sempre oggetto, da parte dell’interprete che ad essi si rapporta, di un giudizio in progress. In questo contesto, infatti, la giurisprudenza ha avuto un ruolo chiave: in particolare, sia i giudici di legittimità sia quelli di merito, valorizzando il proprio ruolo creativo, hanno nel corso del tempo configurato, ridisegnato e plasmato le regole relative alla distribuzione dell’onere della prova tra le parti nei giudizi in materia di responsabilità medica.

L’evoluzione dell’onere della prova in questo settore della responsabilità civile può considerarsi una sorta di itinerario giurisprudenziale, caratterizzato da tappe ben precise.

Seguendo, infatti, una scansione cronologica e per necessità semplificativa, si possono individuare, dagli anni ‘50 ad oggi, cinque stagioni, ognuna caratterizzata da regole peculiari elaborate dalla giurisprudenza nel tentativo, non sempre riuscito, di tenere in considerazione le peculiarità di tale settore.

In particolare, è possibile rinvenire una prima stagione che va dagli anni ’50 fino agli anni ’70, caratterizzata dalla qualificazione dell’obbligazione del sanitario (genericamente inteso sia come medico sia come struttura) come obbligazione di mezzi[14], con conseguente onere del paziente di dimostrare la difettosa esecuzione della prestazione, nonché il nesso eziologico tra la negligenza, imprudenza, imperizia del sanitario e il danno ricevuto[15].

Le regole delineate dalla giurisprudenza degli anni ’50 e ’60, tipiche di una qualificazione aquiliana della responsabilità del medico, vengono però rivisitate dalla giurisprudenza con la nota sentenza della Cass. n. 6141/1978[16], che applica per la prima volta la distinzione tra interventi di facile e interventi di difficile esecuzione come criterio di ripartizione dell’onere probatorio[17], aprendo una seconda stagione. Secondo i giudici di legittimità, nei casi di difficile esecuzione spetta al paziente il compito di dimostrare l’errore in cui è incorso il sanitario, attraverso una ricostruzione precisa delle modalità con cui è stata eseguita ogni fase dell’intervento. Nell’ipotesi, invece, di interventi di facile esecuzione la dimostrazione, da parte dell’attore, del peggioramento delle proprie condizioni di salute costituisce, in base ad un meccanismo presuntivo, la prova dell’inadeguata e negligente esecuzione della prestazione professionale. Spetta al sanitario dimostrare che l’esito peggiorativo è stato causato dal sopravvenire di un evento imprevedibile o dalle condizioni fisiche del malato.

Tale meccanismo presuntivo - che ben ricorda la regola res ipsa loquitur dei sistemi anglosassoni[18] o la prova prima facie tipica del sistema tedesco - non ha incontrato il favore della dottrina maggioritaria[19], tanto da essere definito “un espediente retorico piuttosto maldestro”[20] in grado di configurare una responsabilità oggettiva del medico, con conseguente trasformazione dell’obbligazione di quest’ultimo da obbligazioni di mezzi a obbligazioni di risultato[21].

La regola res ipsa loquitur sembra aver aggravato la posizione del medico o dell’ente ospedaliero, determinando un’inversione di tendenza. Infatti dagli anni ’80 in poi il problema della deterrenza in ambito sanitario è particolarmente sentito. In realtà, la giurisprudenza ha applicato tale regola in modo distorsivo, finendo per attribuire al convenuto l’onere di provare il singolo fattore che ha eziologicamente cagionato il danno lamentato (c.d. rischio del fatto impedivo ignoto)[22]. Al contrario, tale regola avrebbe potuto costituire un utile strumento di equilibrio, se si fosse prestata maggiore attenzione alla prova liberatoria in capo al sanitario, permettendo a quest’ultimo di liberarsi da responsabilità con la dimostrazione di aver tenuto un comportamento diligente, prudente e perito, senza dover provare il singolo fattore produttivo dell’evento dannoso[23]. Inoltre è innegabile che la regola in esame ha per la prima volta previsto un unico criterio di ripartizione dell’onere della prova a fronte di titoli di responsabilità differenti (aquiliana per il medico dipendente e contrattuale per la struttura o il libero professionista), anche se contrassegnati da fattispecie del tutto simili.

La ripartizione dell’onere della prova delineata da Cass. n. 6141/1978 ha caratterizzato il panorama giurisprudenziale in materia di responsabilità medica per più di trent’anni[24].

Una nota pronuncia delle Sezioni Unite del 2001[25], seppure relativa ad un caso non attinente alla responsabilità sanitaria, ha indirettamente dato avvio ad una terza stagione. Con tale sentenza i giudici di legittimità - facendo riferimento ad esigenze di omogeneità, al principio di persistenza del diritto e a quello di vicinanza della prova - hanno stabilito, in materia di responsabilità contrattuale, un’unica regola probatoria sia nel caso in cui venga proposta domanda di adempimento, di risoluzione o di risarcimento, sia nel caso in cui si agisca per il mancato o l’inesatto adempimento. In tutte queste ipotesi il creditore è solo tenuto a dimostrare esclusivamente la fonte del suo diritto, spettando al debitore la prova di aver adempiuto.

Tale principio è stato recepito, nel campo della responsabilità medica, da due sentenze della S.C. - la n. 11148 e la n. 10297[26] del 2004 - le quali hanno rivisto il ruolo della distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione alla luce del nuovo assetto in materia di onere della prova delineato dalle Sezioni Unite nel 2001 ed alla luce della qualificazione in termini contrattuali sia della responsabilità della struttura sia quella del medico c.d. dipendente.

Con quest’ultime pronunce, infatti, i giudici di legittimità hanno attribuito al paziente il solo onere di dimostrare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgere di nuove patologie per effetto dell’intervento, spettando invece all’ente e/o al sanitario la prova che la prestazione professionale è stata eseguita diligentemente e che gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. Secondo i giudici, quindi, la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazioni implicanti la risoluzione di problemi di speciale difficoltà, non costituisce più un criterio per distribuire l’onere della prova, ma deve essere adoperata per valutare il grado di diligenza ed il corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione è di difficile esecuzione.

Due le questioni aperte a seguito delle citate pronunce del 2004.

La prima - tutt’ora non risolta (vedi infra) - concerne il contenuto della prova liberatoria in capo al sanitario: sotto questo profilo, la S.C. è volutamente ambigua se non contraddittoria, poiché, da una parte, afferma che il debitore deve provare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente; dall’altra, ritiene necessaria la dimostrazione del singolo evento imprevisto e imprevedibile che ha causato l’evento peggiorativo. Tuttavia, in diverse pronunce successive al 2004, si riscontra la tendenza ad oggettivizzare sempre più la responsabilità del sanitario, obbligandolo a dimostrare il singolo fattore che ha reso impossibile l’esecuzione della prestazione[27].

In secondo luogo, nelle pronunce del 2004 non viene chiarito su chi debba gravare la prova del nesso eziologico tra prestazione ed evento dannoso: la giurisprudenza immediatamente successiva è però univoca nel ritenere che sia a carico del danneggiato la prova del nesso di causalità tra azione/omissione ed evento[28].

In discontinuità con tale orientamento giurisprudenziale, si sono pronunciate le Sezioni Unite n. 577/2008[29], che hanno aperto una quarta stagione in materia di responsabilità medica, tutta incentrata sulla presunzione del nesso causale. Le Sezioni Unite, infatti, condividono i principi recepiti in ambito sanitario dalla stessa S.C. nel 2004 e dalla giurisprudenza successiva, ma se ne discostano in punto di nesso causale, ritenendo che tale prova non debba essere fornita dal paziente-attore. Secondo i giudici di legittimità del 2008, quindi, il paziente si dovrebbe limitare ad allegare un inadempimento qualificato, cioè astrattamente idoneo a cagionare l’evento pregiudizievole, spettando al debitore provare che tale inadempimento non vi è stato o che, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante.

Salvo posizioni minoritarie[30], la scelta delle Sezioni Unite non ha incontrato l’avallo della dottrina, che ha sia sottolineato come la presunzione in punto di nesso causale non permetta di distinguere il piano della colpa da quello propriamente eziologico[31], sia ha ritenuto tale soluzione non conforme al principio di vicinanza della prova[32], in quanto in grado di configurare una responsabilità a carattere oggettivo per il singolo professionista e per la struttura sanitaria[33].

Inoltre, come si avrà modo di spiegare nel prossimo paragrafo, la soluzione adottata dalle Sezioni Unite è stata altresì in parte disattesa dalla giurisprudenza successiva, che ha spesso richiamato il precedente orientamento sul punto, attribuendo al paziente la dimostrazione del nesso tra condotta ed evento pregiudizievole.

Diversi, poi, sono gli aspetti irrisolti dopo le Sezioni Unite n. 577/2008.

In primo luogo, non è chiaro il contenuto dell’allegazione cui è tenuto l’attore in giudizio e, soprattutto, quale debba essere il grado di specificità di tale allegazione. In secondo luogo, si registrano non poche incertezze relativamente al contenuto della prova liberatoria in capo al medico o alla struttura ospedaliera, che si trova a dover rispondere altresì dell’operato del proprio personale ai sensi dell’art. 1228 c.c.

Si tratta di aspetti centrali anche dopo l’entrata in vigore della legge Balduzzi e della recentissima legge Gelli. Come già chiarito, tali riforme legislative sembrano aver inquadrato nell’alveo aquiliano la responsabilità del c.d. medico dipendente; ciò nonostante la natura della responsabilità della struttura sanitaria rimane contrattuale, con la conseguenza che l’ente ospedaliero è tenuto a fornire una prova liberatoria sia con riferimento all’adempimento delle proprie obbligazioni sia con riferimento all’operato dei propri dipendenti in virtù di quanto stabilito dall’art. 1228 c.c.

Punto fondamentale sta, quindi, nell’individuare, pur tenendo delle peculiarità del caso concreto, criteri generali, ma precisi, che permettano di chiarire il contenuto dei temi di prova assegnati a ciascuna delle parti in causa. Si precisa fin da ora che le considerazioni che seguono hanno come punto di partenza la natura contrattuale della responsabilità del convenuto (sia medico sia struttura sanitaria): la giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite, che si è occupata di tali aspetti, muove da questo assunto. Si deve evidenziare, tuttavia, che una più precisa individuazione dei profili concretizzanti la colpa professionale del sanitario prescinde dall’inquadramento della responsabilità nell’alveo aquiliano o in quello contrattuale.

Inoltre, come già chiarito, non è da escludere che “anche nell’ambito di un’eventuale ricostruzione della responsabilità in chiave aquiliana si giunga, alla luce del principio di vicinanza della prova ed al meccanismo res ipsa loquitur, a delineare un assetto probatorio diverso rispetto a quello che vorrebbe sempre e comunque il paziente gravato della prova della colpa del medico”[34].

Allegazione dell’inadempimento qualificato: contenuto e problemi applicativi

Le Sezioni Unite del 2008 pongono a carico dell’attore l’onere di allegare un “inadempimento qualificato” del convenuto: i giudici di legittimità, pertanto, ritengono sufficiente che l’attore affermi la colpa del sanitario e la sussistenza del nesso causale, ma non forniscono indicazioni utili su quale debba essere il grado di determinatezza e specificità di tale allegazione. Quest’ultimo aspetto è, però, di centrale importanza: come noto, l’onere di allegazione assolve alla funzione di delimitare la domanda attorea, e, quindi, l’oggetto stesso del processo.

Con riferimento all’allegazione della colpa del sanitario, si era già espressa la Corte di cassazione nel 2004[35], ritenendo sufficiente un’allegazione generica, che contesti “l’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere in un dato momento storico, le cognizioni di un professionista che, espletando, peraltro, la professione di avvocato, conosca l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario”.

Come autorevolmente sottolineato[36], un’allegazione così generica rischia di essere ostativa ad una buona difesa da parte del convenuto, il quale, in presenza di un atto di citazione eccessivamente indeterminato, si troverebbe nell’impossibilità di opporre le dovute eccezioni. Né tale assottigliamento dell’onere di allegazione sembra rispondere ad esigenze di equità, avendo come effetto quello di rendere le regole sul giudizio di responsabilità più severe quando convenuto sia un medico piuttosto che un altro professionista. Il rischio è, poi, quello di una mutatio libelli nel processo: infatti, in assenza di precise indicazioni da parte dell’attore sui singoli aspetti di colpevolezza della condotta medica, il c.t.u. potrebbe “allargare” all’infinito l’indagine, arrivando comunque alla conclusione che il medico o la struttura hanno sbagliato, ma per motivi del tutto diversi rispetto a quelli “forse immaginabili” e su cui, in assenza di una precisa indicazione dell’attore, il convenuto ha preso posizione nella comparsa di risposta.

Le preoccupazioni della dottrina sono state recepite anche da una parte della giurisprudenza di merito, che in diverse occasioni ha rigettato le domande attrici perché eccessivamente generiche.

In questo senso peculiare è la sentenza del Tribunale di Frosinone[37] del marzo 2011, che ha respinto il ricorso, sul presupposto che gli attori non avevano assolto al proprio onere di allegazione, non avendo individuato una condotta alternativa lecita che, se tenuta, avrebbe avuto serie possibilità di scongiurare l’evento dannoso. In termini analoghi, il Tribunale di Santa Capua Vetere del 24 febbraio 2012[38] ha considerato non assolto l’onere di allegazione da parte dell’attore, poiché quest’ultimo non aveva indicato, né nell’atto di citazione né nella perizia allegata, “il comportamento specifico che i sanitari avrebbero posto in essere in violazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia”. Le medesime esigenze sono sottese ad una recente pronuncia del Tribunale di Perugia[39] e negli stessi termini si è espresso il Tribunale di Arezzo[40].

Del tutto sui generis è poi la tesi di quella giurisprudenza[41] che, per evitare il rischio di un’allegazione eccessivamente generica da parte dell’attore, ritiene necessario scomporre l’onere della prova e l’onere di allegazione in diversi passaggi. Secondo tale linea interpretativa, il paziente sarebbe tenuto a contestare, con modalità assolutamente indeterminata, il mancato adempimento dell’obbligazione assunta; successivamente il debitore dovrebbe spiegare dettagliatamente il contenuto e le modalità di esecuzione di tale obbligazione. Solo a questo punto il paziente sarebbe obbligato a compiere una vera e propria allegazione, contestando che la condotta posta in essere non sarebbe stata conforme alle leges artis ed, infine, il debitore dovrebbe provare di aver esattamente adempiuto o che tale inadempimento è derivato da una causa a lui non imputabile, in conformità con quanto disposto dall’art. 1218 c.c.

Alla luce di quanto ora esposto, è evidente come la giurisprudenza non abbia maturato una posizione univoca. In realtà, ai fini di un’allegazione adeguata, sembra quanto meno necessario che il paziente indichi in che cosa il medico avrebbe sbagliato, ricorrendo anche all’aiuto di un consulente tecnico: in questo contesto il ruolo dei periti, anche ai fini di un accertamento tecnico preventivo, è di fondamentale importanza e l’avvalersi di tali figure professionali non può configurarsi un onere eccessivamente gravoso per il paziente.

Altro tema cruciale è il contenuto dell’allegazione del nesso causale.

Diverse le strade proposte dalla giurisprudenza per assolvere a tale onere: il nesso causale può essere allegato attraverso la descrizione di una condotta alternativa lecita che, se tenuta, avrebbe avuto apprezzabili possibilità (50% più 1) di scongiurare l’evento dannoso[42], o tramite la dimostrazione della compatibilità delle lesioni con la condotta attribuita ai sanitari, l’entità e la tipologia delle conseguenze prodotte dall’evento. Si considera, altresì, significativo il collegamento temporale tra evento dannoso e prestazione sanitaria, nonché il raffronto tra le condizioni di salute del paziente al suo ingresso in ospedale ed i pregiudizi lamentati successivamente. È pur vero, però, che tali indici implicano già un’attività di prova da parte dell’attore, con la conseguenza che la distinzione tra onere di allegazione e onere della prova tende di fatto ad attenuarsi[43].

In effetti, anche dopo la sentenza delle Sezioni Unite, non sono mancate pronunce - sia di legittimità sia di merito - che si sono discostate dal decisum di Cass. n. 577/2008 ed hanno attribuito al paziente l’onere di provare il nesso causale tra condotta ed evento dannoso[44]. In questo senso significativa è la sentenza n. 2847/2010 della S.C.[45] che, seppur in un ambito peculiare come quello in materia di consenso informato, ha attribuito al paziente l’onere di provare il nesso causale tra omessa informazione e non esecuzione dell’intervento chirurgico.

In realtà, la soluzione delle Sezioni Unite è in controtendenza rispetto al panorama europeo, in cui, salvi casi particolari, la giurisprudenza ritiene che il paziente sia tenuto alla dimostrazione e non solo all’allegazione del nesso di causalità[46].

Peraltro l’orientamento difforme al decisum delle Sezioni Unite del 2008 trova ulteriori conferme nella giurisprudenza relativa ad altri ambiti della responsabilità professionale[47] - come, per esempio, quella dell’avvocato - dove viene attribuita al cliente l’onere di provare il nesso causale tra inadempimento e danno. Il tema del contenuto dell’allegazione attorea è, quindi, in divenire.

Peraltro sotto questo profilo non sembra che tale questione abbia suscitato l’interesse del legislatore, il quale ad oggi ha fornito indirettamente alcune indicazioni sulla natura della responsabilità dei soggetti coinvolti e sulla prova liberatoria del sanitario attraverso la valorizzazione delle c.d. linee guida, ma nulla ha detto sulla posizione sostanziale e processuale dell’attore.

La prova liberatoria in capo alla struttura e al sanitario: le linee guida e l’importanza di valutare le “specificità del caso concreto” alla luce della legge Gelli

Le Sezioni Unite nel 2008, nell’individuare la prova liberatoria in capo al medico o all’ente sanitario, si limitano ad affermare che al creditore spetta semplicemente “fornire la prova che tale inadempimento non vi è stato (...) oppure che, pur esistendo l’inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell’azione risarcitoria proposta”.

I giudici di legittimità non chiariscono, però, se il professionista debba essere tenuto al risarcimento dei danni anche nell’ipotesi in cui rimanga sconosciuto il singolo fattore che ha determinato il peggioramento delle condizioni di salute del paziente.

A questo riguardo, la giurisprudenza successiva non è univoca: dall’analisi delle sentenze di merito e di legittimità emerge un quadro non lineare e la tendenza, soprattutto da parte della S.C., a preferire formule vaghe, che evitano di prendere posizione sul contenuto della prestazione, determinando non poche difficoltà nel processo di individuazione degli oneri probatori tra le parti.

In primo luogo, si registrano pronunce speculari alle Sezioni Unite, le quali - facendo coincidere la prova liberatoria con la dimostrazione dell’assenza di nesso causale tra condotta ed evento dannoso - finiscono, di fatto, per attribuire al medico o alla struttura sanitaria il rischio della causa impeditiva ignota: ogniqualvolta non riescano a dimostrare una sequenza causale alternativa, i convenuti vengono, infatti, condannati al risarcimento dei danni[48].

Non mancano, inoltre, pronunce - sia di merito che di legittimità - che impongono al convenuto di provare che l’esito infausto è stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile, per poi attenuare tale prova rigorosa, ritenendo sufficiente la dimostrazione di aver tenuto un comportamento diligente[49].

Allo stesso modo, si riscontrano sentenze che sembrano aderire ad una concezione soggettiva della responsabilità[50] ed utilizzano i criteri di cui all’art. 1176 c.c. per verificare l’imprevedibilità che ha reso impossibile l’esecuzione della prestazione. In altri casi ancora la giurisprudenza sembra, invece, tenere in considerazione la peculiarità dell’obbligazione del sanitario e della struttura, ritenendo sufficiente la dimostrazione di aver osservato le leges artispreviste per l’esecuzione di una prestazione professionale[51].

In questo contesto, la giurisprudenza di merito si è fatta portatrice, in qualche occasione, dell’esigenza di individuare regole certe o maggiormente rigorose sul punto. Per esempio, appare opportuno menzionare la già citata sentenza del Tribunale di Milano dell’aprile 2008, che ha tentato di specificare con maggior dettaglio il contenuto della prova liberatoria in capo alla struttura e al sanitario. A tale proposito il giudice meneghino, dopo aver richiamato la dottrina francese e italiana in materia di obbligazioni di mezzi e risultato, sottolinea la peculiarità della prestazione medica, traendone le dovute conseguente in punto di prova liberatoria. Il Tribunale distingue, infatti, la prova dell’adempimento da quella sull’impossibilità sopravvenuta. Si ritiene, infatti, che la prima sia raggiunta ogni qualvolta si dimostri di “aver rispettato tutte le norme di prudenza, diligenza, perizia, i protocolli, le linee guida più accreditate nel proprio settore di competenza” e che la seconda debba essere fornita soltanto nell’ipotesi in cui non sia stato possibile dimostrare di aver esattamente eseguito l’obbligazione assunta. Il Tribunale di Milano sembra, altresì, aderire a quell’orientamento dottrinale[52] che fa leva sulla rilevanza in generale delle presunzioni semplici per evitare al debitore di subire il rischio della causa impeditiva ignota[53]. L’intento del giudice meneghino di considerare le peculiarità dell’obbligazione sanitaria è sicuramente apprezzabile. È pur vero, però, che, seppur ribadita anche recentemente da un’altra pronuncia di merito[54], la tesi del Tribunale di Milano rimane tendenzialmente inascoltata. La giurisprudenza, soprattutto quella di legittimità, sembra non voler prendere una posizione esplicita sul rischio delle cause impeditive ignote. Tale modus operandi rischia, però, di attribuire carta bianca alla consulenza tecnica d’ufficio, a cui di fatto viene attribuito il compito di decidere se il medico o la struttura siano responsabili o meno.

In questo contesto e in assenza di una precisa presa di posizione della giurisprudenza sulla prova liberatoria dell’ente e del sanitario (e quindi sul concetto di esatto adempimento in questo particolare settore), un aiuto sembra poter provenire dalla legge Balduzzi e ancora più recentemente dalla legge n. 24/2017 (c.d. Legge Gelli).

Come già chiarito, l’art. 3 della L. n. 189/2012 ha, infatti, esplicitamente sancito la rilevanza della condotta medica conforme a “linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” al fine di escludere la responsabilità penale “per colpa lieve”. Inoltre, tale legge - dopo aver precisato che, anche nel caso di insussistenza di responsabilità penale in virtù della previsione sopra citata, “resta fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. del codice civile” - ha richiamato le linee guida come parametro della “determinazione del risarcimento del danno” - stabilendo che a tal fine il giudice “tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”, ossia della condotta conforme alle linee guida e alle buone pratiche sopra richiamate[55]. In continuità con l’art. 3 della legge Balduzzi si è indirizzata la recentissima legge Gelli, poiché il 3 comma dell’art. 7 impone al giudice di tener conto del rispetto delle linee guida nella determinazione del risarcimento del danno[56].

L’esplicito riconoscimento delle linee guida sotto il profilo risarcitorio (e, quindi, civilistico) richiama l’attenzione dell’interprete sulle conseguenze che la loro osservanza potrebbe avere anche sul piano dell’onere e del contenuto della prova: si è, infatti, affermato che, laddove il medico provi di essersi attenuto alle suddette linee, spetterebbe al paziente provare specifici elementi di colpa[57]. In altri termini, si tratta di verificare se il rispetto delle linee guida possa costituire prova dell’esatto adempimento dell’obbligazione del sanitario e, quindi, anche della struttura sanitaria che sia chiamata a rispondere dell’operato dei propri collaboratori.

Prima che venisse approvato il recentissimo intervento legislativo (c.d Legge Gelli), sia in dottrina sia in giurisprudenza si è posto il problema di chiarire il significato dell’espressione “linee guida” e di individuare i soggetti tenuti alla loro predisposizione.

La definizione di linee guida è stata ufficialmente coniata nel 1992 dall’Institute of Medicine statunitense, che le ha qualificate come “raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico allo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quale siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche”.

Scopo delle linee guida sarebbe, pertanto, quello di indirizzare il sanitario tra le diverse notizie provenienti dalla letteratura medica, preselezionando le informazioni utili ad impostare la soluzione di una questione clinica con la maggior probabilità di successo e il minor dispendio di risorse disponibili[58]. Le linee guida sono, per buona parte, il frutto dell’accreditato metodo della c.d. medicina evidence based, finalizzata cioè ad individuare e codificare, attraverso un processo di ricognizione critica e sistematica delle esperienze cliniche oggetto di pubblicazione, un sistema di riferimento delle scelte sanitarie più efficaci ed autorevoli, da utilizzare in precise situazioni cliniche appositamente individuate e (inevitabilmente) tipizzate[59]. Senonché il modus operandi della c.d. EMB non è scevro da aspetti problematici: in primo luogo, un ruolo distorsivo hanno gli irriducibili contrasti di scuole, con la conseguenza che vengono fornite numerose indicazioni discordanti oppure di scarsa realizzabilità pratica[60]; inoltre, è necessario distinguere tra “standard care of guidelines”, aventi l’obiettivo prioritario di migliorare i risultati delle pratiche cliniche, e “appropriates guide lines”, il cui fine pare principalmente coincidere con la riduzione dei costi sanitari[61]. In questo contesto, la molteplicità degli organi e degli enti che anche in Italia predispongono le linee guida non aiuta nell’individuare quale, tra le diverse linee guida, dovrebbe essere utilizzata al fine di stabilire l’effettiva responsabilità dell’esercente la professione sanitaria[62].

In realtà, la difficoltà di individuare quali linee guida permettano l’accertamento della responsabilità civile e penale del medico era sentita, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, ancor prima della Legge Balduzzi; è, infatti, da un decennio che i giudici, sia di merito sia di legittimità, considerano tali regole di “soft law” come uno strumento importante nell’accertamento della colpa professionale. In questo contesto, la giurisprudenza penale ha adottato tre diversi criteri che dovrebbero permettere di determinare l’autorevolezza delle suddette linee guida e, quindi, la loro applicabilità al caso concreto: in primis, l’accreditamento, da parte della comunità scientifica, della specifica linea guida utilizzata; in secondo luogo, l’assenza di intenti economicistici nella suddetta linea guida, la quale deve essere finalizzata alla maggiore assistenza e non al maggior risparmio; infine, l’inquadramento del paziente nel campione di popolazione per la quale la linea guida è stata utilizzata[63]. Peraltro -anche dopo l’entrata in vigore della legge Balduzzi che ha qualificato il rispetto delle linee guida come vera e propria esimente - la S.C.[64] e la dottrina[65] attribuiscono valore indiziario al rispetto delle linee guida, verificando di volta in volta se la loro osservanza sia idonea a risolvere il singolo caso prospettato. Inoltre la giurisprudenza ha in più occasioni chiarito come le citate linee guida possano essere utilizzate per accertare l’imperizia o meno del medico, ma che non abbiano utilità qualora si discuta della negligenza o dell’imperizia del sanitario[66].

Nel tentativo di risolvere gli aspetti problematici ora illustrati - e in continuità con l’operato della giurisprudenza penale sul punto - è intervenuta la L. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli).

La prima misura, prevista dall’art. 5 della novella legislativa, consiste nell’individuare in modo esatto quali sono le linee guida che devono essere prese in considerazione nei giudizi in materia di responsabilità medica. Si tratta delle “raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cedenza biennale”. Il comma 2, poi, dell’art. 5 demanda ad un apposito decreto ministeriale i criteri necessari ad individuare le società scientifiche e le associazioni tecnico scientifiche che possono iscriversi nel citato elenco; il comma 3 prevede che “le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse... sono integrati nel Sistema Nazionale per le linee guida (SNGL) ...”. L’art. 5, comma 1, nella sua nuova stesura precisa che, in mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si devono attenere alle “buone pratiche clinico assistenziali”. Sotto questo profilo la norma però non fornisce alcun criterio, pertanto è facile che sulla definizione di buone pratiche assistenziali e sul rapporto tra queste e le linee guida continuerà il dibattito dottrinale e giurisprudenziale che si era già aperto dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 della legge Balduzzi la quale richiamava le “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”[67].

La seconda misura, che potremmo definire “correttiva”, è stata introdotta dall’art. 6 della legge Gelli, che prevede la necessità di tenere in considerazione, nel valutare l’applicabilità delle linee guida alla singola fattispecie le “specificità del caso concreto”. L’art. 6 ha, infatti, introdotto l’art. 590 sexies nel codice penale (rubricato “la responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”). In particolare secondo il comma 1 del nuovo art. 590 sexies si applicano le pene previste per l’omicidio colposo o le lesioni personali colpose se tali fatti sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, salvo quanto disposto dal comma 2 della norma. Quest’ultimo prevede, infatti, che “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

In altri termini, il legislatore subordina l’applicabilità dell’esimente all’ipotesi in cui le linee guida siano adatte al caso da risolvere e che l’evento si sia verificato a causa di imperizia; nella diversa ipotesi in cui le stesse non siano idonee, il medico è tenuto a non rispettare le linee guida ed agire diversamente, tenendo conto delle peculiarità della singola fattispecie.

La novella legislativa, quindi, individua una soluzione di compromesso, in cui le linee guida costituiscono a tutti gli effetti regole di soft law regolarmente codificate; ma, nello stesso tempo, le specificità del caso concreto vengono tenute in considerazione, qualora le citate linee guida non possano o non debbano essere osservate.

L’intento della legge Gelli sembra, quindi, quello di considerare le linee guida come uno strumento flessibile per l’accertamento della colpa (nella sola accezione, però, di “imperizia”), senza però inferirne la sussistenza in caso di inosservanza di tali regole e viceversa[68]. Tale modus operandi potrebbe e dovrebbe essere utilizzato anche dalla giurisprudenza civile per verificare l’esattezza o meno dell’adempimento del sanitario. In particolare, nell’ambito civilistico appare opportuno, a parere di chi scrive, distinguere due diverse ipotesi.

La prima ricorre nel caso in cui le linee guida si adattino completamente al caso specifico e si discuta della perizia del sanitario: la prestazione del sanitario coincide con la loro osservanza, con la conseguenza che ogni qualvolta le linee guida vengano rispettate, il giudice civile dovrà necessariamente esonerare da responsabilità il medico. In tale ipotesi, infatti, il sanitario, dimostrando di aver rispettato le linee guida, ha già provato l’esattezza del suo adempimento, il quale non è costituito dal miglioramento o dal non peggioramento delle condizioni di salute del paziente, ma appunto dall’osservanza di quelle regole che la scienza medica ritiene di applicare in quella specifica situazione. Ogni eventuale accertamento sulla causa ignota che ha cagionato il danno al paziente dovrebbe, quindi, essere precluso: non si deve verificare, infatti, se l’impossibilità di eseguire esattamente la prestazione sia derivata da una causa non imputabile al medico, in quanto la prestazione è stata già esattamente adempiuta dal sanitario. Appare opportuno, quindi, separare la prova dell’adempimento da quella sull’imputabilità della causa ignota. Quest’ultima dimostrazione deve, infatti, essere fornita solo e soltanto nel caso in cui il debitore non riesca a dimostrare l’esattezza della prestazione eseguita.

Nei casi in cui le linee guida non siano applicabili o la contestazione mossa nei confronti del sanitario sia di negligenza e imprudenza e non di imperizia, la prova dell’esattezza dell’adempimento non potrà coincidere con la dimostrazione dell’osservanza delle linee guida. Tuttavia ogni qualvolta il sanitario riesca a dimostrare la correttezza delle ragioni che hanno escluso l’applicabilità delle linee guida allo specifico caso, si porranno le basi per verificare se vi sia stato o meno esatto adempimento. Come affermato da autorevole dottrina[69], a seguito della legge Balduzzi (e ora della Legge Gelli) ciò che è antigiuridico (ed è, quindi, fonte di responsabilità) è di aver ignorato le citate linee guida e non l’essersene discostati. È chiaro che poi, nelle ipotesi in cui le queste ultime non siano applicabili, sarà necessario compiere un accertamento sulla diligenza o meno del medico. Tuttavia anche le motivazioni che hanno condotto il sanitario a non utilizzare le citate linee guida dovrebbero costituire un principio di prova dell’esatto adempimento.

La possibilità di utilizzare le linee guida come criterio per accertare la responsabilità del medico anche sotto il profilo civilistico è stato recepita da una parte della giurisprudenza di merito dopo l’entrata in vigore della L. n. 189/2012 e dovrebbe essere presa in considerazione soprattutto a seguito della definitiva approvazione alla Camera della legge Gelli.

In questo senso si segnala una sentenza del Tribunale di Cremona[70] del settembre 2013, la quale ipotizza che “l’art. 3 nel sui riferirsi alle linee guida vada ad impattare soprattutto sul rischio delle concause ignote, comportando che laddove l’intervento non abbia avuto successo o si sia verificato un sito infausto o inatteso, malgrado il rispetto delle linee guida, il sanitario dovrà provare di aver rispettato lo standard curativo della sottoclasse nella quale può essere fatto rientrare il paziente. Quest’ultimo dovrà, invece, dimostrare che l’esito infausto dell’intervento è dipeso dal fatto che il sanitario in presenza di certe specificità del caso concreto avrebbe dovuto scostarsi dalle linee guida ed operare diversamente, oltre ovviamente alla prova che tale diversa condotta sarebbe stata salvifica”.

Sulla possibilità per il sanitario di esonerarsi da responsabilità con la dimostrazione di aver rispettato le linee guida si è espresso anche il Tribunale di Arezzo[71], il quale, però, ha evidenziato come il sanitario debba provare non solo il loro rispetto, ma anche che “tali linee guida indichino standard diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e non siano ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente”.

Si ritiene, quindi, che anche in futuro la giurisprudenza potrà utilizzare le linee guida come punto di partenza per verificare l’esattezza dell’adempimento del sanitario e della struttura che si trovi a rispondere dell’operato dei propri dipendenti.

Nonostante le criticità ora analizzate, le linee guida costituiscono, infatti, un indice indicativo della perizia o meno del sanitario: è innegabile, infatti, che tali raccomandazioni presentino l’indiscutibile vantaggio di fornire - sia all’operatore medico ex ante sia al giudice penale ex post - un comune parametro, sebbene astratto e generale, per identificare, almeno parzialmente, la condotta doverosa[72].

 

[1] R. De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, 1995, Torino.

[2] Il leading case al riguardo è rappresentato da Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, in Giur. it., 1979, I, 1, 953 ss.

[3] Trib. Verona 4 ottobre 1990, in Giur. it., 1991, 696 ss.; Trib. Udine 13 maggio 1991, in Foro it., 1992, II, 549 ss. Attualmente la configurazione del rapporto tra struttura e paziente in termini di contratto di spedalità costituisce un dato pacifico in giurisprudenza. Tra le tante si veda Cass. 26 gennaio 2006, n. 1698, in Danno e resp., 2006, 953 ss., con le puntuali annotazioni di R. Breda, Responsabilità del medico e della struttura sanitaria; Trib. Monza 16 ottobre 2012, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Milano 15 giugno 2012, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Trento 1° marzo 2012, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Prato 1° febbraio 2012, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Novara 21 dicembre 2011, in Novarajus.it, 2011; Trib. Bologna 8 ottobre 2010, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Treviso 21 luglio 2010, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Potenza 20 luglio 2010, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Modena 1° marzo 2010, in Sistema Leggi d’Italia.

[4] Cass., SS.UU., 1° luglio 2002, n. 9556, in Nuova giur. civ. comm., 2003, 689 ss., con nota di L. Favilli, La risarcibilità del danno morale da lesioni del congiunto: l’intervento dirimente delle Sezioni Unite. Tale sentenza è stata confermata anche da Cass., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 577, in Danno e resp., 2008, 788-792, con nota di G. Vinciguerra, Nuovi assetti della responsabilità medica.

[5] Sul punto, si veda da ultimo Trib. Ferrara 18 agosto 2016, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Treviso 14 luglio 2016, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Ivrea 22 febbraio 2016, in Sistema Leggi d’Italia. In dottrina si vedano le considerazioni di M. Gorgoni, La responsabilità della struttura sanitaria, in Danno e resp., 2016, 807 ss.

[6] Legge 8 marzo 2017, n. 24 contenente “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 64 del 17 marzo 2017.

[7] Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in Giur. it., I, 1, 2000, 4 ss.

[8] Trib. Varese 26 novembre 2012 n. 1406, in Danno e resp., 2013, 375; Trib. Torino 26 febbraio, 2013, in Danno e resp., 2013, 373; Trib. Enna 18 maggio 2013, n. 252 in Danno e resp., 2014, 74. Trib. Milano 17 luglio 2014, in Danno e resp., 2015, 47, con nota di L. Mattina, “Legge Balduzzi”: diventa extracontrattuale la responsabilità del medico? Il giudice relatore dell’ultima sentenza citata si era già espresso sull’ambito di applicazione della norma: in particolare si veda P. Gattari, Profili civilistici della legge Balduzzi: il senso del richiamo all’art. 2043 c.c., in Resp. civ. prev., 2014, 1040 ss.

[9] G. Buffone, L’equilibrio precario della responsabilità medica sotto il pendolo di Foucault introdotto dalla legge 189/0212, in La valutazione della colpa medica e la sua tutela assicurativa, San Marino, 2012, 22 ss.; G. Ianni, La responsabilità della struttura sanitaria come responsabilità contrattuale: in particolare, la responsabilità per danni cagionati in occasione del parto e il c.d. “danno da nascita indesiderata”, la c.d. Riforma Balduzzi, in www.ilcaso.it; sul punto F. Martini, Legge Balduzzi, come cambia (e se cambia) la responsabilità sanitaria, in La valutazione della colpa medica e la sua tutela assicurativa, 2012, San Marino, 11 ss.; D. Zorzit, La responsabilità del medico alla luce del decreto Balduzzi: un viaggio tra nuovi e vecchi scenari, in Danno e resp., 2014, 74 ss.; R. De Matteis, La responsabilità professionale del medico. L’art. 3 del d.l. 158/2012 tra passato e futuro della responsabilità medica, in Contr. e impr., 2014, 123 ss., la quale in parte attenua la volontà di qualificare in termini puramente aquiliani la responsabilità del medico. Si vedano anche le osservazioni di G. Ponzanelli, Dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e resp., 2016, 816 ss.; M. Paladini, Linee guida, buone pratiche e quotidiane del danno nella c.d. legge Balduzzi, in Danno e resp., 2015, 881.

[10] R. Breda, Responsabilità medica tra regole giurisprudenziali e recenti interventi normativi, in Contr. e impr., 2014, 785.

[11] R. Breda, Tutela della salute, responsabilità e scelte legislative: un primo approccio alla riforma tra novità conferme e problematiche interpretative nella prospettiva civilistica, in La valutazione della colpa medica e la sua tutela assicurativa, 2012, 79; M. Bona, La responsabilità medica civile e penale dopo il decreto Balduzzi, San Marino, 2013, 145 ss.; L. Mattina, op. cit., 47 ss.; M. De Luca, La nuova responsabilità del medico dopo la legge Balduzzi, Roma, 2012, 27, il quale considera il richiamo all’art. 2043 c.c. come una sineddoche; in giurisprudenza Trib. Firenze 12 febbraio 2014, in www.liderlab.ssup.it; Trib. Arezzo 14 febbraio 2013, in www.ilcaso.it.; Trib. Cremona 19 settembre 2013, in www.altalex.it, con nota di E. M. Crimi, Responsabilità civile del sanitario ex decreto Balduzzi: una prima applicazione, in Danno e resp., 2014, 633 ss., con nota di L. Mattina, Legge Balduzzi: natura della responsabilità civile del medico e in Nuova giur. civ. comm., 2014, 452 ss., con nota di A. Querci, La Riforma Balduzzi alla prova della giurisprudenza: il punto di vista del Tribunale di Cremona; Trib. Caltanissetta 1° luglio 2013, in Resp. civ. prev., 2013, 1988 ss; Trib. Brindisi 18 luglio 2014, in www.ilcaso.it; Trib. Perugia 3 marzo 2014, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Monza 23 febbraio 2016, in Sistema Leggi d’Italia.

[12] Cass. 19 febbraio 2013, n. 4030, in Giur. it., I, 1, 2013, 2512 ss.; Cass. 17 aprile 2014, n. 8940, in Giur. it., 2014, I, 1, 1109 ss; sul punto si veda Cass. 24 dicembre 2014, n. 27391, in Resp. civ. prev., 2015, 836 ss., con nota di M. Della Corte, Foro del consumatore e responsabilità sanitaria: approcci applicativi.

[13] R. Breda, La responsabilità medica dell’esercente la professione sanitaria alla luce della c.d. legge Balduzzi: ipotesi ricostruttive a confronto, in Riv. it. med. leg., 751 ss.

[14] Sul tema riguardante la qualificazione dell’obbligazione del medico come obbligazioni di mezzi si veda V. De Lorenzi, Diligenza, obbligazioni di mezzi e di risultato, in Contr. e impr., 2016, 456 ss.

[15] Cass. 28 aprile 1961, n. 961, in Giur. it., 1962, I, 1, 1248 ss., con nota di Lega, La prestazione del medico come oggetto di obbligazioni di mezzi; Cass. 9 marzo 1965, n. 375, in Foro it., 1965, I, 1039 ss.; Cass. 15 dicembre 1972, n. 3616, in Foro it., 1973, I, 1474 ss.; Cass. 13 ottobre 1972, n. 3044, in Foro it., 1973, I, 1170 ss.; Cass. 18 giugno 1975, n. 2439, in Giur. it., 1976, I, 1, 953 ss., con nota di Lega, In tema di responsabilità del medico chirurgo; Cass. 29 marzo 1976, n. 1132, in Giur. it., 1977, I, 1, 1980 ss.

[16] Cass. 21 dicembre 1978 n. 6141, in Giur. it., 1979, I, 1, 953 ss.

[17] In particolare nella categoria degli interventi di facile esecuzione vengono ricomprese quelle operazioni che “non richiedono una particolare abilità tecnica, essendo sufficiente una preparazione professionale ordinaria, ed il rischio di esito negativo, o addirittura peggiorativo, è minimo, potendo derivare, al di fuori della colpa del chirurgo, dal sopravvenire di eventi imprevisti ed imprevedibili secondo l’ordinaria diligenza professionale oppure dall’esistenza di particolari caratteristiche del paziente non accertabili col medesimo criterio di diligenza professionale». Negli interventi di difficile esecuzione, invece, richiamando la giurisprudenza previgente, vengono inclusi quei casi straordinari ed eccezionali da non essere ancora adeguatamente studiati o sperimentati nella pratica.

[18] Sul punto si vedano le considerazioni di U. Izzo, Il tramonto di un sottosistema della r.c.: la responsabilità medica nel quadro dell’evoluzione giurisprudenziale, in Danno e resp., 2005, 130 ss.

[19] P. Proto Pisani, L’onere della prova nella responsabilità medica, in G. Vettori, Il danno risarcibile, Padova, 2004, 1390; R. Pucella, I difficili assetti della responsabilità sanitaria, in Nuova giur. civ. comm., 2007, 448 ss. in particolare 450; U. Izzo, Il danno da contagio post-trasfusionale come danno evidenziale? Regole e concetti in tema di presunzioni e responsabilità, in Danno e resp., 2001, 249 ss.

[20] C. Castronovo, Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di Pietro Rescigno, Milano, 1998, 124; L. Nivarra, La responsabilità civile dei professionisti (medici, avvocati, notai): il punto sulla giurisprudenza, in Europa dir. priv., 2000, 518 ss.

[21] G. Monateri, La responsabilità civile, a cura di R. Sacco, Trattato di diritto privato, I, diretto da R. Sacco, Torino, 1998.

[22] In questo senso si veda Cass. 4 febbraio 1998, n. 1127, in Sistema Leggi d’Italia; Cass. 18 novembre 1988, n. 6620, in Mass. Giust. civ., 1988; Cass. 1° febbraio 1991, n. 977 in Giur. it., 1991, I, 1, 1379 ss.; Cass. 16 novembre 1993, n. 11287 in Ragiusan, 1998.

[23] In alcuni casi la giurisprudenza ha tenuto in considerazione tale aspetto, permettendo al sanitario di liberarsi con la prova di aver tenuto un comportamento conforme a diligenza: in questo senso Cass. 11 aprile 1995 n. 4152, in Dir. ed econ. assic., 1996, 669 ss.; a tal proposito si vedano le considerazioni di Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294 ss, con nota di V. Carbone, Responsabilità del medico come responsabilità da contatto.

[24] Si vedano le già citate Cass. 18 novembre 1988, n. 6620, cit.; Cass. 1° febbraio 1991, n. 977 cit.; Cass. 5 marzo 1994, n. 8740, in Mass. Giur. it., 1994; Cass. 16 novembre 1993, n. 11287, cit.; Cass. 8 gennaio 1999, n. 103, in Danno e resp., 1999, 779 ss., con nota di R. De Matteis, La responsabilità medica fra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale.

[25] Cass., SS.UU., 30 ottobre 2001 n. 13533, in Foro it., 2002, I, 769 ss., con nota di P. Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo; in Corr. giur., 2001, 1565 ss., con nota di V. Mariconda, Inadempimento e onere della prova: Le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; in Nuova giur. civ. comm., 2002, 356 ss., con nota di B. Meoli, in questa Rivista, 2002, 118 ss., con nota di U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova.

[26] Cass. 19 maggio 2004, n. 9471; Cass. 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. 21 giugno 2004, n. 11488, pubblicate in Danno e resp., 2005, 26 ss., commentate da R. De Matteis, La responsabilità medica ad una svolta?

[27] Cass. 24 maggio 2006, n. 12364, in Cd De Jure, Milano; Cass. 11 novembre 2005, n. 22894, in Mass. Giust. civ., 2005; Cass. 19 aprile 2006, n. 9085, in Corr. giur., 903 ss.; Trib. Bologna 30 gennaio 2006, in Giur. emilia. it.; Trib. Genova 2 agosto 2007, in Sistema Leggi d’Italia.

[28] Cass. 11 novembre 2005, n. 22894, cit.; Cass. 18 aprile 2005, n. 7997, in Mass. Giur. it., 2005; Cass. 19 aprile 2006, n. 9085, cit.; Cass. 24 maggio 2006, n. 12364, cit.

[29] Cass. 11 gennaio 2008, n. 577, in Danno e resp., 2008, 788 ss., con nota di G. Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) aspetti della controversia medica; in Resp. civ., 397 ss., con nota di R. Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria; in Nuova giur. civ. comm., 2008, 616 ss., con nota di R. De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in Danno e resp., 2008, 1002 ss. con nota di M. Gazzara, Le Sezioni Unite fanno il punto di tema di prova della responsabilità sanitaria; in Giur. it., 2008, 2197 ss., con nota di M. G. Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere probatorio; in Danno e resp., 2008, 871-879, con nota di A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico.

[30] G. Vinciguerra, op. cit., 793; cfr. anche G. Vettori, Le fonti e il nesso di causalità nella responsabilità medica, in Obbl. e contr., 2008, 393 ss.; M. G. Corsi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere probatorio, in Giur. it., 2008, c. 10; R. Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria, 2008, 357; F. Busoni, L’onere della prova nella responsabilità del professionista, Milano, 2011, 97 ss. e 133 ss.

[31] R. De Matteis, op. cit., 2008, 620 ss. In senso parzialmente difforme E. Serani, Le cure inutili e la responsabilità del medico: quando la speranza è fonte di danno, in Riv. it. med. leg., 2011, 1693 ss.

[32] M. Gazzara, op. cit., 1011.

[33] A. Nicolussi, op. cit., 871 ss.

[34] R. Breda, op. cit., 2014, 785.

[35] Cass. 19 maggio 2004, n. 9471, cit.; in senso conforme Trib. Venezia 9 febbraio 2009, in Giur. mer., 2009, 1280.

[36] M. Rossetti, Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti (preoccupate considerazioni sull’inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica), in Giust. civ., 2010, 2218 ss.; in senso analogo F. Agnino, La responsabilità medica: lo stato dell’arte della giurisprudenza tra enforcement del paziente ed oggettivazione della responsabilità medica, in Corr. giur., 2011, 628. Sulla necessità che l’allegazione compiuta dall’attore si riferisca a circostanze specifiche e non generiche cfr. F. Busoni, op. cit., 68.

[37] Trib. Frosinone 16 marzo 2011, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 89 ss., con nota di M. Muccioli, La responsabilità del sanitario e l’onere probatorio. Brevi osservazioni in tema di diligenza e nesso causale.

[38] Trib. Santa Maria Capua Vetere 24 febbraio 2012, in www.ilcaso.it.

[39] Trib. Perugia 30 aprile 2014, in Sistema Leggi d’Italia.

[40] Trib. Arezzo 27 settembre 2011, in www.lider-lab.ssup.it. secondo cui “per quanto l’onere di allegazione del paziente non debba spingersi fino a individuare in modo analitico le condotte colpose addebitate al sanitario, la domanda deve comunque essere corredata da una chiara indicazione dei fatti (azioni od omissioni ed asserite conseguenze pregiudizievoli) posti a fondamento della pretesa, onde consentire alla controparte di individuare gli addebiti e di articolare compiutamente le proprie difese».

[41] Trib. Milano 22 aprile 2008, in Danno e resp., 2008, 1265 ss., con nota di R. Breda, Contenuto del rapporto obbligatorio e onere della prova nella responsabilità medica; in Giur. mer., 2009, 98 ss., con nota di A. Lepre, Responsabilità medica: il c.d. inadempimento qualificato, la prova del nesso causale tra inadempimento e danni e il diverso onere probatorio a seconda del contenuto dell’obbligazione sanitaria.

[42] Trib. Frosinone 16 marzo 2011, cit.

[43] Cfr. G. Iadecola - M. Bona, La responsabilità dei medici e delle strutture sanitarie. Profili penali e civili, Milano, 2009, 356.

[44] Nella giurisprudenza di legittimità Cass. 9 ottobre 2012, n. 17143, in Ragiusan, 2013, 354 ss.; Cass. 31 luglio 2013, n. 18341, in questa Rivista, 2014, 139 ss., con nota di A. Putignano, Danno da parto in presenza di cause patologiche pregresse e onere della prova; Cass. 12 settembre 2013, n. 20904, in CED, 2013.

Nella giurisprudenza di merito: Trib. Bari 17 marzo 2010, in Cd De Jure, Milano; Trib. Bari 16 dicembre 2011, in Cd De Jure, Milano; Trib. Bologna 16 febbraio 2012, in Cd De Jure, Milano; Trib. Bari 6 maggio 2013, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Taranto 8 giugno 2012, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Bologna 10 gennaio 2011, in Nuova giur. civ. comm., 2011, 1005 ss., con nota di S. Facciotti, Responsabilità medica e riparto dell’onere della prova del nesso di causalità: inversione di rotta?; Trib. Vicenza 5 marzo 2013, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Roma 7 luglio 2010, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Udine 31 marzo 2011, in Resp. civ. prev., 2011, 1600 ss., con nota di M. Gorgoni, Quando è “più probabile che non” l’esatto adempimento; Trib. Rovereto 2 agosto 2008, in Danno e resp., 2009, 525 ss., in cui si distingue il caso in cui convenuto sia un ente ospedaliero dall’ipotesi in cui sia convenuto sia il singolo medico: in quest’ultimo caso l’onere di provare il nesso causale spetta al paziente; nel primo è l’ente a dover provare la sua insussistenza.

[45] Cass. 9 febbraio 2010, n. 2847, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 783 ss., con commento di S. Cacace, I danni da mancato consenso informato e A. Scacchi, La responsabilità del medico per omessa informazione nel caso di corretta esecuzione dell’intervento “non autorizzato”; in Danno e resp., 2010, 685 ss., con commento di R. Simone, Consenso informato e onere della prova; in Resp. civ. prev., 2010, 1013 ss., con nota di M. Gorgoni, Ancora dubbi sul danno risarcibile a seguito di violazione dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario; in Giur. it., 2011, 816 ss., con commento di G. Chiarini, Il medico (ir)responsabile e il paziente (dis)informato. Note in tema di danno risarcibile per intervento terapeutico eseguito in difetto di consenso; in Corr. e giur., 2010, 1201 ss., con nota di A. Di Majo, La responsabilità da violazione del consenso informato; in Contr. e impr., 2010, 653 ss., con commento di C. Pirro, Sulla mancata acquisizione del consenso informato da parte del medico.

[46] M. Faccioli, L’onere della prova del nesso di causalità nella responsabilità medica: la situazione italiana e uno sguardo all’Europa, in Resp. civ., 2012, 333 ss.: in questo senso significativa è la giurisprudenza tedesca, la quale obbliga il paziente alla dimostrazione del nesso causale, fatta eccezione per l’ipotesi in cui venga accertato un errore grossolano e sempre che tale errore sia tale da aver ipoteticamente potuto cagionare una lesione del medesimo tipo di quella sofferta dal paziente. Ugualmente i giudici inglesi, pur utilizzando il ragionamento presuntivo res ipa loquitur, negano che il nesso causale si possa considerare presunto nelle controversie concernenti la responsabilità medica.

Nella stessa direzione si è indirizzata sia la giurisprudenza scozzese sia quella spagnola, le quali non consentono di invertire l’onere della prova relativa alla sussistenza del nesso causale a favore del paziente. Anche in Olanda si esclude tale facoltà: i giudici olandesi, infatti, preferiscono porre rimedio alle difficoltà probatorie del paziente danneggiato, insistendo sul dovere dell’operatore sanitario convenuto in giudizio di fornire al primo tutta la documentazione necessaria a dimostrare la sussistenza della propria responsabilità.

[47] Con riferimento alla responsabilità dell’avvocato ritengono necessaria la prova del nesso causale nella giurisprudenza di merito Corte d’Appello Taranto 7 febbraio 2014, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Cagliari 13 febbraio 2013, in Riv. giur. sarda, 2013, 3, 487; Trib. Saluzzo 12 agosto 2010, in www.ilcaso.it. Nella giurisprudenza di legittimità Cass. 10 luglio 2006, n. 15633, in Danno e resp., 2007, 538 ss., con nota di D. Covucci, La responsabilità professionale dello studio legale associato; Cass. 23 marzo 2006, n. 6537, in Mass. Giur. it., 2006; Cass. 18 luglio 2002, n. 10454, in Arch. civ., 2003, 523 ss. Sul punto si veda cfr. F. Busoni, op. cit., 99.

[48] Per esempio, tra le tante, Cass. 12 settembre 2013, n. 20904, cit.

[49] In questo senso nella giurisprudenza di legittimità si veda Cass. 7 giugno 2011, n. 12274, in Danno e resp., 2012, 412 ss. La S.C., però, non accerta in concreto se il comportamento del sanitario sia stato diligente o meno. I giudici di legittimità considerano la struttura non responsabile, sul presupposto che il rischio di contrarre l’infezione era talmente basso che questo sarebbe stato comunque imprevedibile ed inevitabile, anche se la struttura fosse stata diligente. In termini analoghi Cass. 21 luglio 2011, n. 15993, in Sistema Leggi d’Italia; Cass. 26 gennaio 2010, n. 1524, in Sistema Leggi d’Italia. Nella giurisprudenza di merito si veda anche Corte d’Appello Potenza 9 luglio 2009, in Sistema Leggi d’Italia; Corte d’Appello Roma 26 gennaio 2009, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Milano 23 maggio 2013, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Roma 7 luglio 2010, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Salerno 28 gennaio 2013, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Ostuni 25 novembre 2010, in questa Rivista, 2011, 184 ss.; Trib. Monza 14 gennaio 2008, in Sistema Leggi d’Italia.

[50] Si veda, per esempio, Trib. Cagliari 17 marzo 2010, in Riv. giur. sarda, 2011, 323 ss.

[51] Nella giurisprudenza di legittimità successiva alle Sezioni Unite si veda Cass. 26 gennaio 2010, n. 1538, in Sistema Leggi d’Italia; Cass. 27 aprile 2010, n. 10060, in Cd De Jure, Milano; Cass. 13 luglio 2010, n. 16394 in Banca dati Foro it.; Cass. 12 novembre 2010, n. 22967, in Cd De Jure,Milano; Trib. Bologna 18 maggio 2010, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Novara 7 novembre 2009, in Sistema Leggi d’Italia; Trib. Nocera Inferiore 18 settembre 2013, in Sistema Leggi d’Italia.

[52] Il riferimento è chiaramente a U. Breccia, Le obbligazioni, in Trattato Iudica Zatti, Milano,1991, 484 ss.

[53] Si afferma, infatti, che “il debitore che abbia adottato i protocolli più accreditati ed abbia agito secondo la diligenza richiesta dalle leges artis, prova in tal modo, mediante presunzioni semplici (art. 1727 ss.), che l’evento non desiderato non è a sé imputabile e che l’obbligazione assunta è estinta per impossibilità sopravvenuta della prestazione».

[54] In questo senso Corte d’Appello Palermo 27 novembre 2013, in Sistema Leggi d’Italia, 2013 il quale distingue la prova dell’adempimento da quella sull’impossibilità. Si afferma, infatti, che “in merito all’azione di responsabilità promossa nei confronti del medico ospedaliero, l’art. 1218 c.c. presuppone l’inadempimento dell’obbligazione da questi assunta che, però, non sussiste allorquando vi sia in concreto la prova positiva dell’adoperata diligenza. Ne consegue che il medico diligente, cioè adempiente, non è neppure gravato dall’onere della prova del caso fortuito, ovvero dell’evento imprevisto ed imprevedibile che abbia determinato l’insuccesso o l’inutilità della prestazione sanitaria. Tale onere presuppone, infatti, non il mero insuccesso ma l’insuccesso determinato da inadempimento dell’obbligazione assunta».

[55] In generale su queste tematiche, oltre alla dottrina citata, nel primo capitolo si veda D. Potetti, Nesso causale e colpa nella responsabilità medica, penale e civile dopo il D. L. 158 del 2012, in Giur. mer., 2013, 1744 ss.; A. Vallini, L’art. 3 del decreto Balduzzi tra retaggi dottrinali, esigenze concrete, approssimazioni testuali, dubbi di costituzionalità, in Riv. it. med. leg., 2013, 735 ss.

[56] Nell’ultima versione modificata dal Senato in data 11 gennaio 2017 e definitivamente approvata alla Camera e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo 2017 è stata aggiunta al comma 3 dell’art. 7 la seguente disposizione: “il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590 sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge”.

[57] M. Hazan, Osservatorio di diritto e pratica dell’assicurazione, in Danno e resp., 2013, 64 ss.

[58] M. Caputo, Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 875 ss.; si veda anche le osservazioni di M. Paladini, op. cit., 881 ss.

[59] L. Cajazzo - M. Marzano, La rilevanza delle linee guida nella valutazione della responsabilità professionale del medico e le novità della legge Balduzzi, in Corr. giur., 2013, 479 ss. Per la definizione e per l’ambito di applicazione delle c.d. E.M.B. si veda M. Barni, Evidence Based Medicine e medicina legale, in Riv. it. med. leg., 1998, 3 ss.; R. Domenici - B. Guida, Linee guida e colpa medica: spunti di riflessione, in Danno e resp., 2014, 353 ss.

[60] In questo senso si veda C. Cupelli, I limiti di una codificazione terapeutica. Linee guida, buone pratiche e colpa grave al vaglio della Cassazione, in Cass. pen., 2013, 2999 ss.

[61] L. Nocco, Le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nella legge Balduzzi: un opportuno strumento di soft law o un incentivo alla medicina difensiva?, in Riv. it. med. leg., 2013, 781 ss.; G. Guerra, La rilevanza giuridica delle linee guida nella pratica medica: spunti di diritto americano, in Nuova giur. civcomm., 2014, 377 ss.; G. Civiello, Responsabilità medica e rispetto delle linee guida, tra colpa grave e colpa lieve (la nuova disposizione del decreto sanità), in Arch. pen., 2013, 5.

[62] A questo riguardo in Italia i soggetti coinvolti, a livello centrale, sono principalmente due: il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità al cui interno è attivo, da qualche anno, il Sistema Nazionale linee guida, istituito con D.M. 30 giugno 2004 e confermato dal d.P.R. 7 aprile 2006.

In particolare il Ministero si è impegnato nella produzione delle linee guida: ne è prova la redazione di ben 14 documenti da parte dell’Ufficio qualità delle attività e dei servizi della Direzione generale della programmazione sanitaria dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema del Ministero stesso.

Allo stesso modo l’Istituto superiore di Sanità non è stato da meno, avendo predisposto 25 linee guida portate a realizzazione e 6 documenti di Conferenza di consenso. I temi trattati sono vari, vertendo sui problemi di natura strettamente clinica (così ad es. la linea guida sulla profilassi antibiotica preoperatoria e quella che discute l’impiego della diagnostica per imagingnelle demenze), di prevenzione primaria e di politica sanitaria (così la linea guida che si propone il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte in sanità). Parzialmente diversa è la situazione a livello regionale e locale: accanto a regioni che hanno dimostrato disinteresse verso tale codificazione (per esempio Toscana, Emilia Romagna), se ne contrappongono altre che, al contrario, hanno prodotto linee guida in vari ambiti.

[63] R. Domenici - B. Guida, op. cit., 14 ss.

[64] Cass. pen. 24 gennaio 2013, n. 16237, in Dir. pen. proc. pen., 2013, 651 ss.; Cass. pen. 11 marzo 2013, n. 11493, in www.cortedicassazione.it.; Cass. 23 settembre 2013, n. 39165, in Danno e resp., 2014, 109 ss. Cass. pen. 29 ottobre 2015, n. 4468, in Sistema Leggi d’Italia; Cass. pen. 22 aprile 2015, n. 24455, in Sistema Leggi d’Italia; Cass. Pen. 20 marzo 2015, n. 16944, in Sistema Leggi d’Italia; Cass. pen. 27 aprile 2015, n. 26996, in Sistema Leggi d’Italia, che ritiene che l’esimente di cui al citato art. 3 riguardi la sola perizia e non la negligenza o l’imprudenza.

[65] Si veda in questo senso, per esempio, le osservazioni di S. Zaami - V. Fineschi - Frati - M. Gulino - G. Montanari Vergallo, La riforma legislativa della responsabilità sanitaria e le prime applicazioni giurisprudenziali. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi, in Resp. civ. prev., 2013, 1045 ss.

[66] Si veda, per esempio, Cass. 11 marzo 2013, n. 11493, cit.

[67] Infatti, una linea di pensiero riteneva che tale espressione fosse frutto di un’endiadi, con la conseguenza che le buone pratiche ricomprenderebbero anche le linee guida (A. Fiori - D. Marchetti, L’art. 3 della legge Balduzzi. 189/212 ed i vecchi e nuovi problemi della medicina legale, in Riv. it. med. leg., 2013, 564 ss). Al contrario un’altra dottrina sosteneva che si trattasse di due figure diverse. Si è affermato, infatti, che a differenza delle linee guida, le buone pratiche sono tassative e sono caratterizzate da regole molto più stringenti, ma non hanno finalità di contenimento dei costi. Secondo tale linea interpretativa, quindi, le buone pratiche si avvicinerebbero o addirittura coinciderebbero con i protocolli diagnostici-terapeutici i quali costituiscono veri e propri regolamenti comportamentali rigidi e definiti per il medico (A. Roiati, Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo?, in Dir. pen. proc., 2013, 224; L. Nocco, op. cit., 781).

[68] Sul punto si veda anche E. Sgubin, Responsabilità civile, Linee guida e responsabilità della struttura sanitaria, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 4, 564 ss.

[69] In questo senso si vedano le considerazioni di M. Franzoni, Colpa e Linee guida, in Danno e resp., 2016, 801 ss.

[70] Trib. Cremona 19 settembre 2013, in Resp. civ. prev., 2014, 1322 ss., con nota di F. Galletti, L’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi: su chi grava il rischio delle c.d. con(cause) ignote?

[71] Trib. Arezzo 14 gennaio 2014, in Sistema Leggi d’Italia.

[72] F. Consorte, Colpe e linee guida, in Dir. pen. proc., 2011, 1223 ss.

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