Danno non patrimoniale - Giurisprudenza

13 marzo 2018

 

Giurisprudenza – Danno non patrimoniale

Merito

Danno all’immagine

Danno all’immagine di un ente esponenziale:  la responsabilità multifunzionale

Tribunale di Bari, G.U., 31 luglio 2017 - Avv. L.P. e A.C., in sostituzione del Comune di Bari contro Ministero dell’interno

Deve essere accolta la domanda risarcitoria per il danno non patrimoniale consistente nella lesione dell’immagine del Comune di Bari, patito dall’ente territoriale a seguito dell’apertura del CIE. Il risarcimento in tal senso è ritenuto necessario a fronte dell’ingente danno arrecato alla comunità territoriale tutta, da sempre storicamente dimostratasi aperta all’ospitalità. Più inparticolare, il danno all’immagine patito dall’ente territoriale si giustifica alla luce di quella che è una normale identificazione, storicamente comprovata, tra luoghi ove si perpetrano violazioni dei diritti della persona e il territorio che li ospita. Nel caso concreto, il Comune di Bari, che aveva con deliberazione consiliare espresso la propria contrarietà all’insediamento del Centro in questione, ha subìto la presenza dello stesso e, soprattutto, le determinazioni, in ordine alla sua gestione, adottate dall’Amministrazione statale. Quest’ultima èrimasta del tutto inerte dinanzi alle numerose segnalazioni circa le condizioni in cui versavano gli immigrati del CIE, nonché innanzi alle richieste di verifica delle condizioni igienico-sanitarie del Centro, la cui inidoneità all’assistenza dello straniero e alla piena tutela della sua dignità risulta dimostrata pienamente dalle risultanze probatorie.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conforme

Corte conti 14 gennaio 2008, n. 24, in Giur. it.,2008, 4, 1012; Corte conti 23 aprile 2003, n. 10, in Giur. it.,2003, 1710; Cass. 14 ottobre 2003, n. 25157, in Foro it.,2009, 1, 2762; Cass. 4 giugno 2007, n. 12929, in Resp. civ.,2008, 144.

Difforme

Trib. Roma 20 luglio 1991, in Dir. inf.,1992, 88; Corte cost. 12 aprile 1973, n. 38, in Dir. autore,1973, 311; Cass. 27 settembre 2006, n. 20886, in Foro it.,2007, 9, c. 2484.

La Corte (omissis).

Ragioni di fatto e diritto della decisione

I fatti oggetto del presente giudizio possono essere sommariamente riassunti nei termini che seguono.

Con atto di citazione ritualmente notificato Paccione Luigi e Carlucci Alessio citavano in giudizio, innanzi al Tribunale di Bari, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno, la Prefettura di Bari - Ufficio Territoriale del Governo, il Comune di Bari e la Provincia di Bari per sentire accogliere le seguenti conclusioni: a) accertare e dichiarare che il Centro di identificazione e di espulsione (d’ora in avanti CIE) sito nel territorio della città di Bari è una struttura di detenzione di esseri umani; b) accertare e dichiarare che nella suddetta struttura manca un presidio del S.S.N; c) accertare e dichiarare che le “Linee Guida per la progettazione dei Centri di Identificazione e di Espulsione”, redatte nell’anno 2009, dal Comitato Tecnico Consultivo del Capo Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, costituiscono mera proposta mai recepita dai competenti organi della P.A.; d) accertare e dichiarare che le stesse Linee Guida sono giuridicamente inesistenti e/o inefficaci; e) accertare e dichiarare che la reclusione delle persone nel CIE, secondo le rilevate caratteristiche di tipo carcerario, integra condotta materiale lesiva dei diritti universali dell’uomo; f) accertare e dichiarare che il trattamento delle persone nel CIE viola, oltre che le carte fondamentali dei diritti dell’uomo, anche gli standards minimi di vivibilità per i detenuti stabiliti dalla normativa interna e comunitaria e dalla giurisprudenza della CEDU, come richiamata dal Ministero della Giustizia della Repubblica Italiana, con la circolare GDAP - 0308424 - 2009 del 25 agosto 2009, in conformità alla Raccomandazione REC (2006) 2 rivolta dal Comitato dei Ministri agli Stati membri; g) per l’effetto, ove occorra previa disapplicazione delle Linee Guida sopradette, ordinare l’immediata chiusura del CIE per violazione dei diritti umani; h) in subordine, condannare la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari, alla esecuzione di tutte le opere edilizie necessarie indicate nella consulenza tecnica di ufficio nella pregressa fase di istruzione preventiva, alla realizzazione dei necessari presidi socio sanitari, alla eliminazione di ogni forma di detenzione carceraria degli immigrati; i) condannare la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari, anche in solido tra loro, al risarcimento del danno nei confronti del Comune di Bari e della Provincia di Bari, per la violazione dei diritti umani all’interno del CIE, danno da liquidare in via equitativa; j) condannare la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari, anche in solido tra loro, al risarcimento del danno all’immagine del Comune di Bari e della Provincia di Bari, quali enti esponenziali delle comunità ivi insediate, da liquidare in via equitativa, con condanna dei convenuti Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell’Interno e Prefettura di Bari, al pagamento delle spese di lite. Nello specifico assumevano, in primo luogo, di agire in sostituzione degli enti locali, Comune di Bari e Provincia di Bari, per l’esercizio del diritto di questi enti a garantire il rispetto nel proprio territorio degli inviolabili diritti umani e di esercitare quindi una azione popolare ex art. 9, comma 1, d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Evidenziavano poi che la normativa sull’ingresso nello Stato italiano degli stranieri (d.lgs. n. 286/1998) prevede che il trattenimento degli stessi presso il CIE debba essere improntato a scopi di protezione umanitaria, poiché il legislatore ha previsto espressamente di “prestare soccorso allo straniero o di effettuare accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, ovvero di acquisire i documenti per il viaggio o la disponibilità di un mezzo di trasporto idoneo” (art. 14, comma 1, citato d.lgs.). È, invece, inapplicabile al cittadino extracomunitario la misura della reclusione in ipotesi di violazione dell’ordine dell’autorità amministrativa di lasciare il territorio nazionale entro un determinato termine (art. 14, comma 5, stesso d.lgs.). Poste queste premesse, quanto ai fatti di causa rilevavano che nella città di Bari era stato costruito e collaudato un Centro di permanenza temporanea per gli immigrati irregolari e che, a far data dalla apertura della struttura, localizzata in Bari Palese, sul sedime adiacente a quello della Scuola Allievi della Guardia di Finanza, si erano susseguite allarmanti notizie su vari mezzi di comunicazione in ordine al trattamento riservato alle persone ivi raccolte (peraltro anche in conseguenza di accessi in loco operati da parlamentari italiani, nonché di inchiesta della organizzazione “Medici senza frontiere”). A fronte di tanto, essi attori inviavano una intimazione al Ministro dell’Interno, al Prefetto di Bari, al Presidente della Provincia di Bari, al Sindaco di Bari, nella quale diffidavano gli organi competenti ad assicurare adeguate condizioni di vita all’interno del CIE. Poiché non giungeva alcuna risposta da tali organi, essi attori proponevano ricorso al Presidente del Tribunale di Bari ex art. 696 c.p.c., al fine di accertare lo stato dei luoghi e di verificare se tali luoghi di detenzione del CIE rispettassero le prescrizioni di cui all’art. 6 della legge n. 354 del 26 luglio 1975, nonché gli artt. 6 e 7 del d.P.R. 230/2000. In detto giudizio si costituivano solo la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno e in data 2/3 marzo 2011 veniva resa ordinanza con la quale l’autorità giudiziaria adita, respingendo le eccezioni proposte dai resistenti (relativamente alla carenza di giurisdizione del G.O., alla carenza di legittimazione attiva degli attori popolari, alla carenza di legittimazione passiva delle Amministrazioni statali evocate in giudizio, alla insussistenza dei presupposti per l’esperibilità della azione popolare e per l’A.T.P., alla inapplicabilità alla fattispecie in esame delle norme sulle strutture carcerarie e alla infondatezza della domanda di istruzione preventiva), ammetteva l’accertamento tecnico preventivo. Non va sottaciuto che nella ordinanza ammissiva del mezzo di prova il Presidente del Tribunale di Bari evidenziava che i CIE “sono da considerare idonei se le strutture, l’organizzazione gestione della permanenza degli stranieri, l’indice di occupazione siano tali da assicurare a coloro che vi sono trattenuti necessaria assistenza e rispetto pieno della loro dignità”. Si deduceva così che i “trattenuti” hanno un vero e proprio diritto “a permanere nei centri godendo della necessaria assistenza e senza mortificazione della loro dignità”, con conseguente riconoscimento, in caso di violazione di questo diritto, della giurisdizione del G.O. e legittimazione ad agire non solo degli enti locali, ma anche dei cittadini elettori, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 267/2000. Avviato quindi il procedimento di accertamento tecnico preventivo, le parti potevano verificare che le condizioni di vita nel centro erano le seguenti: l’ingresso nell’area del CIE, delimitata da alte mura, era consentito solo a persone autorizzate, attraverso una postazione fissa presidiata da Forze Armate e Forze dell’Ordine; le persone ristrette nel centro, concentrate nel blocco “D” della struttura, erano sottoposte a un regime di detenzione all’interno di “moduli” carcerari sorvegliati dall’esterno da personale delle Forze Armate e della Polizia di Stato; l’accesso nei moduli poteva avvenire solo tramite l’apertura di una porta metallica ad opera dell’operatore di turno, provvista di spioncino che consentiva la introspezione nel corridoio da parte del custode; ogni modulo si componeva di sette stanze, con arredi costituiti da letti metallici ancorati al pavimento e strutture in muratura con vani aperti per la sistemazione dei propri effetti personali; non v’era possibilità di comunicazione diretta tra gli occupanti i moduli, se non previa autorizzazione rimessa al personale di sorveglianza; le camere alloggio erano dotate di finestre con inferriata metallica e non disponevano di dispositivi per la protezione dalla luce solare, con possibilità di introspezione dall’esterno; la estensione delle camere consentiva alle persone di fruire ciascuno di 6,25 metri quadrati e 18,25 metri cubi; ciascuna camera aveva quattro letti metallici fissati al pavimento, con adiacente blocco di calcestruzzo utilizzato come comodino e una struttura, sempre in calcestruzzo, utilizzata come armadietto; le singole camere non disponevano di possibilità di oscuramento; mancava ogni riservatezza nei servizi igienico sanitari, essendo ubicato solo un bagno alla turca in locali di assai ridotte dimensioni, mentre le porte non consentivano la chiusura dall’interno; i locali destinati alla doccia avevano una estensione pari all’ingombro del piatto doccia, senza che fossero peraltro dotati di appendiabiti, con la conseguenza che era impossibile arrivare nei locali stessi con un minimo di vestiti addosso; l’area destinata a sala mensa, di ridotte dimensioni, era dotata di panche e tavoli metallici fissati al pavimento e conteneva un piccolo televisore schermato e fissato alla parete mediante struttura metallica; l’intera area del CIE era recintata da alta cancellata metallica con sistema contro l’evasione e di videosorveglianza, oltre ad essere dotata di barriere radar; l’impianto di illuminazione all’interno dei radar era comandato dall’esterno; la struttura era inoltre vigilata all’esterno da due elementi di polizia ordinaria, dotati di armi di ordinanza, oltre che da 24 militari dotati di sfollagente. Durante il primo sopralluogo, le persone trattenute inscenavano una protesta che si placava solo dopo l’intervento di due funzionari di Pubblica Sicurezza. Il c.t.p. del Comune di Bari chiedeva, nel corso delle operazioni, di dare atto delle pessime condizioni di manutenzione e conservazione dei servizi igienici e anche di parte dei pavimenti, oltre che delle pareti degli ambienti e di altre circostanze. Sempre durante il sopralluogo, i detenuti nel Modulo n. 1 dichiaravano agli attori popolari di non conoscere le ragioni per le quali si trovavano ivi ristretti e imploravano aiuto. La visita proseguiva nei moduli 3 e 5 dove venivano constatate situazioni analoghe, mentre nel modulo 6 erano in corso lavori di manutenzione ordinaria e in quello n. 7 erano state effettuate le pitturazioni delle pareti e la manutenzione ordinaria dei servizi sanitari. Il rappresentante della Prefettura di Bari evidenziava che i moduli n. 2 e n. 4 erano chiusi e non utilizzati dal mese di agosto 2010 a causa di un incendio. Inoltre, lo stesso asseriva che i detenuti erano in numero di 99. Veniva peraltro evidenziato che la inagibilità del modulo n. 2 era stata determinata da un incendio di materassi all’interno del vano docce, per il quale era stata sporta denuncia alla autorità giudiziaria. Veniva poi data conferma del fatto che i danneggiamenti erano conseguenza di una rivolta che aveva avuto luogo nella notte del 30 luglio 2010. Gli attori popolari evidenziavano che le condizioni del CIE, così come sopra riportate, comportavano una evidenza di un regime carcerario con trattamento disumano delle persone ivi ristrette. Rilevavano ancora gli attori popolari che la prima relazione del consulente tecnico d’ufficio certificava che le generali condizioni degli alloggi e dei relativi servizi igienici erano tali da non soddisfare le ordinarie esigenze di benessere e di decoro, e che da parte dei detenuti era emersa in modo chiaro la insofferenza causata dalla lunga e forzata permanenza nella struttura, culminata a volte in forme estreme, come incendi e atti lesivi, anche autolesionistici. Tale insofferenza emergeva anche dalla distruzione di suppellettili e di locali, laddove i lavori di manutenzione non erano in grado di sopperire al degrado, posto che le azioni dimostrative si erano ripetute nel tempo. Il miglioramento della qualità della vita all’interno del centro invece poteva essere determinato attraverso interventi miranti a garantire la funzionalità della struttura e la riduzione delle condizioni di ansia e di malessere dei detenuti. Lo stesso c.t.u. evidenziava che il numero dei servizi igienici era insufficiente rispetto a quanto indicato dalle Linee Guida del 2009 e poteva essere incrementato. Infine, occorreva intervenire sulle condizioni psicologiche dei detenuti, creando spazi nei quali impegnarli in varie attività, anche a discapito della capienza del centro. Gli attori esponevano inoltre che a seguito delle osservazioni dei consulenti tecnici di parte, in data 29 giugno 2011 veniva depositata la relazione conclusiva di consulenza tecnica d’ufficio, nella quale il perito incaricato escludeva che la struttura potesse qualificarsi come carceraria, senza negare che le persone ivi ristrette fossero private della libertà personale, essendo sottoposte a un regime di reclusione h 24 e a vigilanza da parte dei Corpi Armati dello Stato. Il consulente precisava altresì di avere consigliato la esecuzione di opere di manutenzione per l’adeguamento della struttura alle Linee Guida, non tenute presenti all’epoca della costruzione del CIE in quanto redatte successivamente. Lo stesso poi asseriva che la struttura era in grado di assicurare ai trattenuti la necessaria assistenza e il rispetto della loro dignità, pur essendo da apportare interventi migliorativi, così come descritti nella relazione. Gli attori popolari contestavano la suddetta relazione di c.t.u., in quanto il tecnico, pur dando atto delle caratteristiche di fatto carcerarie del CIE, negava contraddittoriamente nelle conclusioni questa evidenza, per la sostanziale conformità del CIE di Bari alle Linee Guida del 2009. Tali Linee Guida però, pure violate nel caso del CIE (come anche riconosciuto dal c.t.u. nella sua relazione), non potevano costituire parametro di riferimento per la verifica del rispetto della dignità degli uomini ivi reclusi, non essendo state previste da alcuna fonte legislativa atta ad accreditarle come disciplina regolamentare e non essendo mai state approvate: esse risultavano, dunque, giuridicamente inesistenti e/o geneticamente inefficaci, oltre al fatto di essere state elaborate da un semplice comitato tecnico consultivo, come tale privo del potere deliberativo con efficacia esterna. A parere degli attori, quindi, poteva affermarsi che nel CIE erano ristretti esseri umani in applicazione di un documento, le predette Linee Guida, giuridicamente inesistente e/o inefficace, che non poteva essere considerato come regolamento o atto amministrativo idoneo a incidere sulla libertà personale degli immigrati. Gli attori ritenevano inoltre che il c.t.u. avesse comunque svolto apprezzamenti giuridici nell’accertamento dei fatti. Ad esempio, l’accertato presidio armato del centro ne segnalava la caratteristica carceraria, ma veniva illogicamente considerato dal c.t.u. come “Area Operativa Riservata”, che pure non consente forme di detenzione alternative a quelle indicate dallo Stato; la presenza di un’area di polizia sarebbe poi stata giustificata dalla previsione della stessa nelle Linee Guida, ma in realtà essa era riconducibile proprio alla funzione di sorveglianza, come peraltro evidenziato dal rappresentante del Ministero dell’Interno; la restrizione delle persone nei moduli, invece, sarebbe stata giustificata da ragioni di sicurezza e di protezione degli stessi immigrati; la presenza di grate di ferro antievasione trovava motivazione in base alla sua previsione nelle Linee Guida del 2009, non considerando però che proprio questa architettura denotava il carattere carcerario della struttura; la presenza di illuminazione subita dall’esterno era anche essa giustificata con la previsione nelle Linee Guida, ma non considerava il fatto che privare un uomo del diritto di autodeterminarsi, nella fruizione della luce artificiale, integra una forma di tortura. Ne deducevano, quindi, l’illogicità e la contraddittorietà delle conclusioni alle quali era giunto il CTU. Piuttosto, a loro dire doveva essere affermato che la consulenza aveva in fatto dimostrato che i cittadini extracomunitari rinchiusi nel CIE erano sottoposti a privazione della libertà personale e a forme di tortura, senza alcun rispetto delle garanzie previste per i detenuti dall’ordinamento penitenziario. Esponevano ancora che sussisteva nel caso di specie la violazione della giurisprudenza costituzionale e della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE. Infatti, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 105/2001, aveva evidenziato che il trattenimento nei CIE comportava violazione della libertà personale, la quale, invece, non può essere ristretta al di fuori delle garanzie di cui all’art. 13 della Costituzione, applicabili anche allo straniero. La Corte di Giustizia, Prima Sezione, del 28 aprile 2011, nel procedimento C-61/11 PPU, aveva poi affermato che la Direttiva sopra citata deve essere interpretata nel senso che la stessa osta alla irrogazione, da parte degli Stati membri, della pena della reclusione al cittadino di un Paese terzo, il cui soggiorno sia irregolare, per la sola ragione che egli permanga nel territorio, pur essendo destinatario dell’ordine di lasciarlo. Di conseguenza, sarebbe inapplicabile al cittadino extracomunitario la misura penale della reclusone in ipotesi di violazione dell’ordine di lasciare il territorio nazionale entro un determinato termine. Rilevavano poi che, come già emerso nel procedimento di A.T.P. dinanzi al Presidente del Tribunale di Bari, sarebbe parametro certo quello per cui lo straniero debba essere trattenuto nel Centro con modalità tali da assicurargli la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità. Era invece provato che queste condizioni non erano garantite dal CIE di Bari, essendo violata la legge che lo aveva istituito come centro di accoglienza e di soccorso umanitario. Sul punto scarso rilievo veniva attribuito alla circostanza che il c.t.u. avesse escluso che il Centro potesse essere ricondotto tra le carceri. Tali conclusioni erano semplicemente dovute, a parere degli attori popolari, alla applicazione di un parametro fuorviante come le Linee Guida. Lo stesso c.t.u., peraltro, nel corso dei sopralluoghi, aveva acclarato di persona la circostanza della privazione della libertà personale, con modalità di reclusione finanche più afflittive di quelle delle carceri statali. In queste ultime strutture, infatti, i detenuti possono socializzare senza richiedere autorizzazioni alle autorità sorveglianti, sono occupati in attività lavorative, possono accedere a corsi di studio e di formazione professionale, infine possono beneficiare di strutture sportive e di svago all’interno delle carceri. Nel CIE, invece, la comunicazione dei detenuti di ciascun modulo con quelli di altro modulo è possibile solo previa autorizzazione del personale, la reclusione nei moduli è permanente h 24, i servizi igienici sono indecenti, la luce elettrica viene comandata dall’esterno, manca infine nel Centro un presidio del Servizio Sanitario Nazionale. Sul punto era emerso che il presidio, attivo nelle 24 ore, non garantiva alcuna assistenza ai detenuti, ma solo l’invio al ricovero in struttura pubblica, ricorrendone le condizioni. Il presidio medico infermieristico era assicurato dall’ente gestore, il quale però, a dire degli attori popolari, non era dotato di abilitazione all’attività medica, circostanza di per sé costituente trattamento degradante e inumano, alla luce del fatto che nel CIE era stato riscontrato un altissimo grado di ansia e di insofferenza psicologica. Riportavano poi il testo di una denuncia pubblica, secondo il racconto delle condizioni di trattenimento nel centro, inviata anche al Presidente della Repubblica. Gli attori concludevano sostenendo quindi che sia la normativa comunitaria sia quella interna vietano che il trattamento degli stranieri possa essere di tipo carcerario nei confronti di coloro i quali non hanno commesso alcun reato, come invece palesemente accade nel CIE di Bari. Tale circostanza non può essere giustificata con l’applicazione delle Linee Guida dell’aprile 2009 poiché tale atto risulta giuridicamente inidoneo a incidere sui diritti fondamentali dell’uomo e comunque giuridicamente inesistente perché mai approvato dai competenti organi statali. Le condizioni di trattenimento nel CIE non rispetterebbero comunque neanche i parametri normativi vigenti per gli istituti penitenziari italiani. Il CIE di Bari sarebbe quindi un luogo dove si perpetrerebbero quotidianamente violazioni dei diritti dell’uomo, posto che il trattamento riservato agli stranieri potrebbe dirsi contrario all’art. 6 della legge 26 luglio 1975, n. 354 e agli artt. 6 e 7 del d.P.R. 230/2000, oltre che alle prescrizioni dettate in materia penitenziaria dalla normativa comunitaria (Raccomandazione R (2006) 2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri adottata in data 11 gennaio 2006), nonché della vincolante giurisprudenza della Corte EDU (caso Sulejmanovic c/Italia, n. 22635/03, sent. 16 luglio 2009, richiamata dal Ministero della Giustizia delle Repubblica Italiana con la circolare di recepimento GDAP - 0308424 - 2009 del 25 agosto 2009). Con comparsa di costituzione e risposta in data 9 giugno 2012 si costituivano in giudizio il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiedendo: a) di dichiarare il difetto di giurisdizione del G.O.; b) di dichiarare la domanda improponibile per difetto dei presupposti di cui all’art. 9 della legge n. 267/2000; c) di dichiarare il difetto di legittimazione attiva degli attori e passiva delle Amministrazioni convenute, essendo legittimato passivamente l’ente gestore del centro; d) di dichiarare inammissibili le domande proposte o di respingerle perché infondate, acclarando la non applicabilità al CIE degli standards previsti per gli istituti penitenziari e le disposizioni di cui al d.P.R. 230/2000 e della legge n. 354/1975. Nello specifico eccepivano in via preliminare il difetto assoluto di giurisdizione del G.O., palesandosi l’azione come petizione diretta al legislatore sulla questione dei CIE, laddove lo stesso Presidente del Tribunale di Bari aveva, con la ordinanza in data 2/3 marzo 2011, evidenziato i limiti della azione in quelli relativi all’accertamento della violazione dei diritti e al riconoscimento della responsabilità civile. Sotto altro profilo, doveva poi ravvisarsi il difetto di giurisdizione del G.O. poiché che gli attori popolari avevano di fatto utilizzato lo schema legislativo indicato dal d.lgs. n. 198/2009, che ha introdotto nell’ordinamento la figura della class action amministrativa la quale, però, non contempla la figura della domanda di risarcimento del danno. Inoltre, lo stesso decreto esclude la legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, espressamente attribuendo, infine, la giurisdizione in subiecta materia al G.A. Evidenziavano inoltre la mancata sussistenza degli estremi per ritenere ricorrenti i presupposti per esperire l’azione di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 267/2000. Sostenevano che le azioni popolari sono strumenti che consentono, in casi eccezionali e tassativi, la tutela degli interessi di fatto, non qualificati e indifferenziati, all’osservanza da parte della P.A. delle norme di buona amministrazione. Le stesse si porrebbero, pertanto, come strumenti in deroga all’art. 100 c.p.c., di natura suppletiva o correttiva. Nel caso di specie ricorreva un’azione di tipo suppletivo, volta ad assicurare la tutela dei diritti e degli interessi del Comune e della Provincia in caso di inerzia degli amministratori locali, con attribuzione del potere al cittadino elettore, in sostituzione dell’ente locale inerte, in applicazione dell’art. 81 c.p.c. L’azione in esame potrebbe quindi essere esercitata dal cittadino elettore purché non in contrasto con la volontà espressa dall’ente locale. Diversamente si verificherebbe un vulnus alla rappresentatività, essendo attribuita al cittadino una legittimazione speciale. Nel caso di specie, gli attori popolari avevano dichiarato di volere esercitare l’azione popolare per la tutela di standards minimi di vivibilità all’interno dei CIE. Tuttavia mancherebbe una disposizione che impone agli enti locali un obbligo di vigilanza sulle condizioni di vivibilità degli stranieri nel centro, circostanza neanche indicata nel ricorso, unitamente all’omissione relativa alla equiparazione, quanto al rispetto degli standards, dei CIE agli istituti penitenziari. La legittimazione ad agire non poteva neppure essere tratta dai commi 2 e 3 dell’art. 3 del d.lgs. n. 267/2000, sicché il generico omesso esercizio di poteri di vigilanza e di controllo o sanzionatorio non poteva legittimare gli attori a promuovere il giudizio. Per promuovere l’azione popolare sarebbe necessario, a detta dei convenuti, l’attribuzione da parte del governo all’ente locale del potere di promuovere una azione e un ricorso e la conseguente inerzia di questi ultimi: nel caso di specie così non era, tenuto conto del fatto che il novellato art. 117 Cost. riserva alcune materie alla potestà esclusiva dello Stato, tra cui rientrano quelle oggetto del presente giudizio, quindi escluse dalla potestà del Comune e della Provincia. Questi ultimi enti non avrebbero quindi competenza in ordine al godimento da parte degli immigrati dei diritti loro spettanti, laddove la verifica delle condizioni igienico sanitarie dei centri non compete alle amministrazioni locali, ma all’ufficio di vigilanza della Direzione interregionale della Polizia di Stato. Esponevano ancora i convenuti che sussisteva il difetto di legittimazione passiva delle Amministrazioni convenute, posto che la Prefettura di Bari aveva stipulato una convenzione con R.T.I. Ente OER / Ladisa Spa Medica Sud s.r.l., per la erogazione dei servizi che dovevano essere svolti nel rispetto delle finalità della missione istituzionale; a tal fine l’ente gestore si impegnava ad impiegare le figure professionali in possesso dei profili professionali, con una attività di controllo da parte della Prefettura. Le condotte denunciate come trattamento degradante e inumano sarebbero quindi riferibili unicamente al gestore, con conseguente difetto di legittimazione passiva delle Amministrazioni convenute. Erano peraltro assicurati, all’interno della struttura, i servizi di mediazione linguistica culturale, di informazione sulla normativa concernente l’immigrazione, il sostegno socio psicologico, oltre che l’assistenza sanitaria, assicurando altresì l’ente gestore rapporti diretti con gli immigrati trattenuti nella struttura. Peraltro, i convenuti osservavano che l’art. 3 d.lgs. n. 198/2009 prevede la notifica del ricorso in tema di class action al concessionario. Eccepivano, poi, il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, posto che la materia della immigrazione sarebbe di competenza del Ministero dell’Interno (ex d.lgs. n. 300/1999). Quanto al merito della domanda, rilevavano che essa era infondata. L’ordinamento italiano riconosce ai cittadini stranieri extracomunitari i diritti fondamentali della persona umana, secondo quanto previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 286/1998 e dalle varie fonti nazionali e sovranazionali, mai derogate dallo Stato italiano. Per disciplinare il fenomeno dell’immigrazione, l’Italia ha partecipato alla stipula di accordi e convenzioni. In particolare, la disciplina è stata dettata dapprima dalla legge n. 943/1986, poi dalla legge n. 39/1990, e infine da vari provvedimenti emessi in attuazione di direttive comunitarie. Quanto ai CIE, esso sono stati così denominati dalla legge n. 125 in data 24 luglio 2008 e istituiti con l’art. 12 della legge n. 40 in data 6 marzo 1998 e successive modifiche (d.lgs. n. 286/1998 e legge n. 189/2002) e sono strutture deputate al trattenimento (per un periodo massimo di 180 giorni) dei destinatari dei provvedimenti amministrativi di espulsione, convalidati dal Giudice di Pace, tanto al fine di consentire alle forze di Polizia di procedere alla identificazione dei clandestini ivi collocati. Il periodo di permanenza massimo nei CIE è stato poi portato a 18 mesi, con legge n. 129/2011. Tali Centri, quindi, sono strutture destinate a trattenere gli immigrati per un periodo strettamente necessario alla esecuzione della espulsione, con accompagnamento alla frontiera, quando non sia possibile eseguire l’espulsione immediatamente. Il trattenimento nei CIE è peraltro disciplinato dall’art. 14 T.U. immigrazione, e le modalità dello stesso prevedono che sia assicurata la necessaria assistenza allo straniero, il pieno rispetto della sua dignità e la possibilità di comunicare con l’esterno. La gestione dei centri è stata disciplinata dagli artt. 20, 21, 22, 23 del reg. n. 394/1999, affidata ai Prefetti delle Province dove è istituito il centro e deve avvenire in conformità con le direttive impartite dal Ministero dell’Interno, anche tramite la stipula di convenzione con soggetti terzi. In tali centri devono essere assicurati i servizi per il mantenimento e l’assistenza degli stranieri, i servizi sanitari essenziali, quelli di socializzazione e quelli finalizzati all’esercizio del culto. Sono state poi approvate le Linee Guida e il Ministero dell’Interno ha approvato lo schema di capitolato di appalto per la gestione dei servizi e per la progettazione dei centri, al fine di migliorare le condizioni di vita degli immigrati e assicurare il rispetto della dignità umana. Con Decreto Interministeriale del 29 novembre 2005 è stata riconosciuta ai CIE la caratteristica di aree operative riservate, all’interno delle quali la vigilanza sulla legislazione in materia di sicurezza e salute è demandata al personale della Amministrazione dell’Interno. Esponevano ancora, quanto al CIE di Bari, che con decreto interministeriale del 21 luglio 1998 veniva istituito il Centro di Temporanea Permanenza e assistenza ai sensi dell’art. 12 della legge 40/1998 e con successivo decreto del 28 luglio 1998 veniva disposta la segretazione dei lavori, determinata dalla circostanza della presenza all’interno della struttura di personale delle Forze di Polizia destinato alla vigilanza e alla sicurezza del Centro. Specificavano poi che l’area di Polizia costituiva senz’altro una struttura militare perché deputata alla vigilanza e alle comunicazioni destinate alla sicurezza e difesa nazionale. La gestione del CIE di Bari veniva affidata ad un ente a seguito di regolare gara e sono gli operatori dello stesso ad avere rapporti diretti con gli immigrati, mentre la Prefettura svolge solo attività di vigilanza, assicurando una turnazione giornaliera del proprio personale. L’assistenza sanitaria sarebbe assicurata da personale del gestore; si contestava, peraltro, la questione che nel centro sarebbero utilizzati farmaci scaduti. L’attività di verifica e controllo igienico sanitario è poi effettuata da un medico della Polizia di Stato. Quanto alla sicurezza, il servizio di vigilanza è assicurato dalla Questura di Bari, mediante un presidio fisso, avvalendosi peraltro di militari delle Forze Armate. Nel 2010 i NAS dei Carabinieri di Bari evidenziavano che, nonostante la persistenza di danneggiamenti agli arredi e alla struttura, non vi erano gravi carenze nella stessa. La gestione e l’organizzazione è affidata ai Prefetti delle Province in cui il CIE è istituito, che seguono le istruzioni del Ministero dell’Interno il quale, peraltro, a seguito dei vari danneggiamenti, stanziava la somma di euro 1.700.000,00 per la ristrutturazione dell’immobile. I convenuti evidenziavano ancora che le risultanze della A.T.P. avevano evidenziato che il CIE di Bari sarebbe in grado di assicurare ai trattenuti la assistenza necessaria oltre che il rispetto della loro dignità. Le criticità riscontrate nel centro sarebbero addebitabili in parte al mancato rispetto delle Linee Guida del 2009 (essendo stato il Centro costruito successivamente a quella data) e, principalmente, ai danneggiamenti arrecati proprio dai trattenuti. Quanto poi all’assistenza ai trattenuti, essa veniva assicurata dall’ente gestore secondo i patti contrattuali, escludendo il tecnico che la struttura potesse essere qualificata come carceraria, essendo invece qualificata come “Area Operativa Riservata”; la presenza delle forze di Polizia era dovuta in quanto prevista dalle Linee Guida, così come la presenza di grate metalliche agli infissi esterni e l’alta cancellata metallica con sistema antievasione. La dimensione delle celle era anche superiore a quanto previsto dal d.lgs. n. 81 in data 9 aprile 2008 per gli alloggi dormitori. Le condizioni di areazione all’interno delle singole strutture, invece, era di poco inferiore ai parametri degli abitati, dovendosi tenere presente che i trattenuti non trascorrono molto tempo nelle singole camere. Il consulente tecnico aveva anche indicato i lavori da attuare per superare le criticità pur riscontrate e l’Amministrazione aveva pure provveduto ad attivarsi per l’adeguamento della struttura alle nuove Linee Guida e la Prefettura si era adoperata per la sollecita esecuzione dei lavori. Per questo era stato disposto l’accreditamento della somma di Euro 1.700.000,00 da parte del Ministero dell’Interno, al fine di realizzare un secondo blocco di servizi igienici e l’allestimento di sale da adibire al tempo libero. A riguardo era già stata individuata la stazione appaltante ed era stata anche redatta una relazione di un gruppo di lavoro appositamente costituito, che aveva precisato la necessità di una serie di lavori di ristrutturazione e di creazione di ulteriori blocchi di servizi igienici. Inoltre, il CIE era oggetto di visita da parte di vari soggetti istituzionali e varie organizzazioni. Essendo lo stesso Centro una struttura dichiarata “Area Operativa Riservata”, ed essendo stata esclusa dal c.t.u. la qualifica di struttura carceraria, l’accesso veniva subordinato a particolari misure di sicurezza. Peraltro, il carattere carcerario della struttura veniva escluso dal fatto che la stessa non dipende dalla Amministrazione carceraria, ma dalle Prefetture UTG. All’interno dei CIE inoltre, agiscono operatori dell’ente gestore, e qualora lo straniero si allontani dalla stessa non commette reato di evasione, ma deve soltanto esservi ricondotto. I CIE e le procedure di accompagnamento non inciderebbero, quindi, sulla libertà personale dello straniero, ma solo sulla sua libertà di circolazione e di soggiorno. Pur a voler ammettere che la misura del trattenimento incida sulla libertà personale, residuerebbe comunque sempre il rispetto delle garanzie di cui all’art. 13 della Costituzione. Permarrebbe, quindi, la necessità di garantire il bilanciamento degli interessi, ossia l’esigenza di contrastare l’immigrazione clandestina e il rispetto dei diritti dello straniero. La Corte Costituzionale, poi, con la decisione n. 105/2001 ha evidenziato che il legislatore ha voluto evitare la identificazione di questi centri con le strutture carcerarie, mentre il Ministero dell’Interno, con la circolare n. 11/1998 ha rilevato che il trattenimento dello straniero nel Centro non può assimilarsi ad una sanzione detentiva, mentre le limitazioni alla libertà della persona devono essere strettamente funzionali ad evitarne l’allontanamento abusivo e a garantire la sicurezza delle persone che lavorano nel centro, il tutto rispettando la dignità dello straniero.

All’interno del Centro è garantita la massima libertà di movimento, mentre gli alloggi non rappresentano celle e le stanze all’interno dei moduli non sono chiuse. Al CIE, di conseguenza, non sarebbero applicabili le leggi in materia carceraria, di natura eccezionale e non suscettibili di applicazione analogica. Infine, stante la contingenza del problema dell’ingresso degli extracomunitari nel nostro Paese, si riteneva importante evidenziare che le condizioni degli stessi sono di certo caratterizzate da un notevole stato di tensione, con la conseguenza che i danni sarebbero stati arrecati dagli stranieri stessi, il che renderebbe non accoglibile la domanda risarcitoria. Con comparsa di costituzione e risposta in data 5 giugno 2012 si costituiva in giudizio la Regione Puglia, chiedendo: a) di accertare e dichiarare che il CIE di Bari è una struttura di detenzione di esseri umani; b) di accertare e dichiarare che in esso manca un presidio del Servizio Sanitario nazionale a tutela della integrità fisica e psichica delle persone ivi ristrette; c) accertare e dichiarare che le Linee Guida anno 2009, redatte dal Comitato Tecnico Consultivo del Capo Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione, costituiscono una mera proposta mai recepita dai competenti organi della PA statale; d) accertare e dichiarare che le Linee Guida sono giuridicamente inesistenti e/o inefficaci; e) accertare e dichiarare che la reclusione delle persone all’interno del CIE, secondo le rilevate caratteristiche di tipo carcerario, integra condotta lesiva dei diritti universali dell’uomo; f) accertare e dichiarare che il trattamento delle persone ristrette nel CIE viola, oltre che i diritti dell’uomo, anche gli standards minimi di vivibilità per i detenuti; g) per l’effetto, ove occorra previa disapplicazione delle Linee Guida, ordinare l’immediata chiusura del CIE per violazione dei diritti umani; h) in subordine, condannare la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari, Ufficio Territoriale del Governo, in solido tra loro: alla esecuzione delle opere edilizie necessarie indicate dal c.t.u. nella fase di istruzione preventiva, alla realizzazione dei necessari presidi socio sanitari del S.S.N. con preposizione di personale qualificato, con condanna delle spese di lite. Nello specifico, deduceva di non essere ente sostituito ex art. 9 del d.lgs. n. 267/2000, ma di essere stata evocata nel giudizio e di condividere nel merito tutto quanto dedotto giuridicamente dagli attori popolari. Ripercorrendo la disciplina dei CIE, evidenziava che l’art. 14 della legge n. 125/2008 ha stabilito che i CIE sono costituiti con decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con quelli della solidarietà sociale e del tesoro, delbilancio e della programmazione economica, proseguendo nel senso che allo straniero trattenuto nel centro è assicurata la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità. La competenza legislativa in materia di CIE è devoluta allo Stato, residuando in capo alle Regioni il compito di osservazione e monitoraggio del funzionamento dei centri, nell’ambito delle proprie competenze, in materia di assistenza e sanitaria (come peraltro previsto dall’art. 3, comma v del d. lgs. n. 286/1998). La Regione Puglia prevede nel proprio Statuto varie finalità e principi, quali il rispetto delle dignità, dei diritti e delle libertà della persona umana, il benessere e la sicurezza, in linea con le disposizioni legislative anche sovranazionali, oltre che nazionali, nonché la pace, la solidarietà, l’accoglienza, lo sviluppo umano e la tutela delle differenze. Tali circostanze porterebbero l’ente a condividere le conclusioni degli attori popolari. L’accertamento tecnico preventivo ha evidenziato come il trattenimento degli stranieri nel CIE di Bari non potrebbe dirsi ispirato al rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona, presentando il Centro varie criticità e comunque risultando in esso la compressione e la forte limitazione della libertà personale. Lo stesso c.t.u., dando atto delle caratteristiche della struttura del CIE di Bari, ha fatto emergere come lo stesso possa essere di fatto assimilabile ad una struttura carceraria; segnatamente, ciò sarebbe dimostrato dalla presenza di forze armate di polizia, dalla detenzione degli ospiti in moduli carcerari con sorveglianza h 24 da parte di corpi armati, dalla presenza di grate antievasione, nonché dal fatto che le persone sono costrette a subire la presenza di luce artificiale comandata dall’esterno. Agli immigrati presenti nel suddetto CIE è preclusa la possibilità, garantita invece agli ospiti delle carceri statali, di socializzare con altri detenuti senza essere preventivamente autorizzati. All’interno del CIE non è inoltre prevista la presenza di alcun presidio del S.S.N. Tutti questi elementi farebbero propendere per il fatto che il CIE di Bari non possa dirsi di certo una struttura idonea ai sensi di quanto previsto dall’art. 14 comma 2 d. lgs. n. 286/1998. Con comparsa di costituzione e risposta del 12 giugno 2012, in adesione all’azione popolare ex art. 9 d. lgs. n. 267/2000, si costituiva in giudizio il Comune di Bari, aderendo alle deduzioni in fatto e in diritto e alle domande formulate dagli attori popolari. Nello specifico, ripercorrendo le deduzioni degli attori popolari nel presente giudizio e in quello di accertamento tecnico preventivo, deduceva la sussistenza della propria legittimazione ad agire nel giudizio, spettando al Comune, in forza dell’art. 13 TUEL, le funzioni amministrative riguardanti la popolazione e il territorio comunale, nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, fatte salve le competenze attribuite ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, mentre il Sindaco ha proprie ulteriori competenze relative a situazioni di emergenza, sanitarie e di igiene pubblica. Il competente ufficio comunale esercita, in forza dell’art. 27 d.P.R. n. 380/2001, attività di vigilanza nel settore urbanistico edilizio, rilasciando il certificato di agibilità che attesta il rispetto delle condizioni di sicurezza, di igiene, di salubrità, di risparmio energetico degli edifici e degli impianti in essi installati. In forza di questi principi sussiste, quindi, a parere del Comune interveniente nel giudizio, la propria legittimazione ad agire, quale ente esponenziale della comunità locale e quale ente pubblico cui è attribuita la potestà della gestione del proprio territorio in relazione ai servizi alla persona e alla comunità, tanto da poter proporre azione di condanna e risarcitoria per la tutela dell’interesse alla modalità di esplicazione di esercizio del CIE, qualora si deducesse la violazione in esso dei diritti inviolabili della persona e il timore di trattamenti inumani e degradanti, tutto questo sia perché competente in materia di servizi alla persona e alla comunità, sia perché competente in ordine alla vigilanza igienico sanitaria, dal punto di vista edilizio e della salubrità. Quanto alla esperita azione di condanna nei confronti dello Stato evidenziava che, quantunque non sia prevista la pena della reclusione per il reato contravvenzionale ex art. 10 bis del d. lgs. n. 286/1998, la modalità di esercizio delle competenze dello Stato in materia di immigrazione andrebbe valutata secondo quanto previsto dall’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, che prevede il divieto di tortura. La circostanza per cui la libertà personale venga compressa con modalità deteriori rispetto a quanto previsto nelle strutture carcerarie (essendo la vita dei ristretti gestita e regolamentata da parte di un ente privato vincitore di una gara di appalto dei servizi), integra violazione del predetto art. 3. Ogni comportamento della P.A. che violi la norma su citata sarebbe emesso in carenza di potere, il che fonderebbe la esperibilità della azione di condanna innanzi al G.O. Con riferimento alla domanda di risarcimento del danno per la violazione dei diritti umani e all’immagine del Comune di Bari deduceva che, poiché l’Itala ha ratificato, con la legge n. 848 in data 4 agosto 1955, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, avendo peraltro gli artt. 35 e 13 della Convenzione efficacia precettiva, gli Stati contraenti hanno il dovere di assicurare agli esseri umani la protezione effettiva e integrale dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, con la conseguenza che qualora venga violato un diritto fondamentale dell’individuo i Giudici nazionali devono conseguentemente adottare i rimedi giurisdizionali conformi alla Convenzione. La giurisprudenza ha poi riconosciuto ipotesi di risarcimento del danno morale anche al di fuori della fattispecie penalmente rilevanti, al di là, quindi, dell’ipotesi di cui all’art. 185 c.p.c., ovvero qualora la legge attribuisce ad un soggetto pubblico l’obbligo risarcitorio in base ad una regola di responsabilità oggettiva, come nel caso di specie, ove il vulnus ai diritti dell’uomo è concepito all’interno di strutture statali (sul punto, Cassazione n. 4542/2012, che ha riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale quando l’altrui condotta leda diritti della personalità, come il diritto alla immagine, alla identità e alla reputazione). Peraltro, il Comune di Bari aveva, con deliberazione consiliare n. 149 del 15 novembre 2004, espresso la sua contrarietà e quella della comunità a ospitare il CIE (allora C.P.T.), tanto a maggior ragione rispetto a quanto accertato in sede di c.t.u. Non va sottaciuto che nel corso del giudizio venivano esperiti due procedimenti cautelari, entrambi esitati in provvedimenti confermati in sede di reclamo ex art. 669- terdecies c.p.c. Il primo, promosso dagli attori popolari ai sensi dell’art. 700 c.p.c., veniva definito con provvedimento in data 3/9 gennaio 2014, con il quale veniva ordinato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dell’Interno e alla Prefettura di Bari - Ufficio Territoriale del Governo, di eseguire una serie di lavori all’interno del CIE di Bari, meglio descritti nel dispositivo del provvedimento (e finalizzati, in sostanza, a rendere maggiormente vivibile la condizione dei trattenuti nel centro), da eseguirsi nel termine di giorni 90, con la espressa previsione che, in caso contrario, le persone trattenute nel CIE dovevano trasferite in altri centri rispondenti ai requisiti previsti dalla normativa vigente. Il secondo, proposto ex art. 669 duodecies c.p.c. (a seguito di diffida svolta dagli attori popolari agli enti statali, per il mancato rispetto del termine per l’esecuzione dei lavori), si concludeva con provvedimento del 9 febbraio 2015, con il quale il Giudice di prime cure, non accogliendo il ricorso per la chiusura del CIE, nominava invece un commissario ad acta per verificare lo stato di avanzamento dei lavori ordinati con il precedente provvedimento cautelare. Istruita poi la causa, precisate le conclusioni all’udienza del 10 febbraio 2016, il procedimento veniva assegnato ad altro Giudice. Indi, alla udienza del 9 gennaio 2017 le parti precisavano nuovamente le conclusioni e il Giudice riservava la causa per la decisione, assegnando i termini ex art. 190 c.p.c. Tutto quanto sopra esposto, il Giudice evidenzia quanto segue. I punti principali da dover affrontare, così come formulati nelle rispettive domande, riguardano sia eccezioni preliminari sia questioni di merito. Le stesse andranno di seguito trattate punto per punto. La prima questione preliminare da dover affrontare è quella relativa alla giurisdizione. Sul punto si osserva che, dopo aver depositato e notificato atto di citazione, gli attori presentavano ricorso ex art. 700 c.p.c. per la pronuncia di provvedimenti d’urgenza, consistenti nell’ordine di cessazione di ogni forma di detenzione carceraria delle persone trattenute nel CIE di Bari, nonché nella richiesta di adozione di ogni misura ritenuta idonea ad assicurare provvisoriamente gli effetti dell’emananda decisione di merito. Ove il Giudicante non avesse ritenuto di dover accogliere tali richieste, insistevano gli attori affinché il Tribunale ordinasse in via d’urgenza alle amministrazioni convenute/resistenti di eseguire immediatamente e nel termine da fissarsi tutti gli interventi necessari per migliorare le condizioni psicofisiche delle persone trattenute nel CIE. I resistenti si costituivano con una propria comparsa, evidenziando preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Con ordinanza del 03/09 gennaio 2014, il Giudice si esprimeva in merito alle questioni preliminari e riguardo alla giurisdizione evidenziava che sul punto era già intervenuta un’ordinanza del Presidente del Tribunale (depositata il 3 marzo 2010, che disponeva l’ATP ante causam), riguardante il rilievo dell’art. 14 comma 2 d.lgs. n. 286/1998. Tale articolo infatti riconosce in maniera indiscussa il diritto dei “trattenuti” nei CIE a permanere in essi, godendo della necessaria assistenza e senza mortificazione della loro dignità. Secondo l’assunto dei ricorrenti, tali diritti non apparivano in alcuna maniera tutelati. Continuando nella lettura dell’ordinanza del 03/09 gennaio 2014, si evidenziava che anche le Sezioni Unite della Corte Suprema hanno stabilito che la domanda di risarcimento del danno da detenzione illegale per illegittima proroga del trattenimento dello straniero appartiene alla giurisdizione del Giudice ordinario, poiché lo stesso è il giudice dei diritti e davanti al medesimo si celebra il subprocedimento di proroga (con le stesse garanzie del contraddittorio previste dall’art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 per la convalida della prima frazione temporale del trattenimento). Il Giudice ordinario è infatti dotato del potere di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo incidente sulla libertà della persona e, quindi, competente a decidere sul risarcimento del danno cagionato dall’eventuale illegittimità (così Cass., sez. un., 13.6.2012, n. 9596). La competenza giurisdizionale del Giudice dei diritti viene inoltre suffragata anche dalla scarsa casistica di precedenti del Giudice amministrativo, il quale si è occupato di risvolti secondari relativi alla disciplina di cui all’art. 14 del t.u. del 1998, nei quali venivano in considerazione atti e provvedimenti della pubblica amministrazione (cfr., ad es., Cons. Stato, sez. III, 17.1.2013, n. 271 e id., sez. III, 9.5.2012, n. 2684 in tema di emersione dal lavoro irregolare dei cittadini extracomunitari). Nel caso in esame, quindi, la materia oggetto di cognizione del Giudice ordinario riguarda il trattamento cui gli stranieri sono in generale sottoposti, per effetto dei titoli di restrizione della libertà personale (titoli che sono quindi qui presupposti e, come tali, incontestati). E necessario rammentare che il Giudice delle leggi, già alcuni anni fa, riteneva che: “Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza (n.d.r., ora centri di identificazione e di espulsione) è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione. Si può forse dubitare se esso sia o meno da includere nelle misure restrittive tipiche espressamente menzionate dall’art. 13; e tale dubbio può essere in parte alimentato dalla considerazione che il legislatore ha avuto cura di evitare, anche sul piano terminologico, l’identificazione con istituti familiari al diritto penale, assegnando al trattenimento anche finalità di assistenza e prevedendo per esso un regime diverso da quello penitenziario. Tuttavia, se si ha riguardo al suo contenuto, il trattenimento è quantomeno da ricondurre alle ‘altre restrizioni della libertà personale’, di cui pure si fa menzione nell’art. 13 della Costituzione. Lo si evince dal comma 7 dell’art. 14, secondo il quale il Questore, avvalendosi della forza pubblica, adotta efficaci misure di vigilanza affinché lo straniero non si allontani indebitamente dal centro e provvede a ripristinare senza ritardo la misura ove questa venga violata. Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’art. 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale che, al pari degli altri diritti costituzionalmente proclamati inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso art. 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’art. 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere effetto” (così nella motivazione Corte Cost., 10.4.2001, n. 105). A tal proposito bisogna evidenziare che nel settore “parallelo” del sistema penitenziario opera pacificamente la cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria. La Corte Costituzionale, infatti, ha stabilito che la magistratura di sorveglianza è titolare della funzione tendenzialmente piena di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati. Tale garanzia consiste nel vaglio di legittimità pieno sia del rispetto dei presupposti legislativi dettati all’amministrazione per l’adozione delle misure, sia dei loro contenuti, con particolare riferimento all’incidenza sui non comprimili diritti dei detenuti e degli internati, la cui garanzia spetta alla giurisdizione del giudice ordinario (così Corte Cost., 11.2.1999, n. 26), nel cui ambito è compresa, ad es., anche quella in tema di lavoro carcerario, prestato dai detenuti (cfr. Cass., sez. un., 14.12.1999, n. 899). I precedenti di merito hanno dato continuità a tali insegnamenti: la magistratura di sorveglianza (facente parte del complesso giurisdizionale ordinario) si è ritenuta investita di giurisdizione piena ed esclusiva in ordine alla tutela dei diritti dei detenuti, estesa anche al risarcimento per equivalente (cfr., ad es., Sez. Sorv. Lecce, 9.6.2011; id., 17.9.2009). Secondo la prospettazione degli attori popolari, le posizioni giuridiche da loro fatte valere hanno la consistenza di diritti soggettivi e quindi la giurisdizione in questa materia non può che spettare al giudice ordinario: tale giurisdizione non potrebbe essere declinata sul rilievo che i diritti che si assumono violati appartengono ai singoli individui “trattenuti” (non parti di questo giudizio), non già agli attori popolari o agli enti territoriali sostituiti. Infatti, in ipotesi di azione popolare promossa dal cittadino elettore, ai sensi dell’art. 7 L. 8 giugno 1990 n. 142 (modificato dall’art. 4, comma 1, L. 3 agosto 1999 n. 265, e poi trasfuso nell’art. 9 d.lg. 18 agosto 2000 n. 267) - attribuendo a ciascun elettore il potere di far valere in giudizio ogni azione e ricorso spettante al comune, con il solo limite costituito dall’esistenza di un’azione che il comune abbia esercitato in proprio - qualora venga richiesta la condanna al risarcimento del danno economico subito dal Comune a causa del comportamento illegittimo dei suoi amministratori, si verte in tema di danno erariale, con conseguente devoluzione della controversia alla giurisdizione della Corte dei conti, alla quale spetta anche di decidere in ordine alla legittimazione del cittadino elettore ad esercitare l’azione di responsabilità di cui è titolare il procuratore presso la Corte medesima (in tal senso Cass., sez. un., 3.3.2003, n. 3150). Non è inoltre accoglibile l’eccezione sollevata dalle parti resistenti, le quali ritengono che l’azione promossa dagli attori/ricorrenti sia una class action amministrativa (la cui cognizione è devoluta al giudice amministrativo ex art. 1 comma 7 d.lgs 198/2009). Il rimedio della class action è concesso “al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio ed è accordato ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, a condizione che ne derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalla autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 13 del medesimo decreto e secondo le cadenze temporali definite dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”. Nel caso di specie si evidenzia che: il trattenimento degli stranieri nei CIE non è di certo un servizio pubblico; gli attori popolari non si propongono come titolari in proprio di interessi né impersonano enti o associazioni che li curino ex art. 1 comma 4 del d.lgs 198/2009; gli attori non fanno valere affatto una lesione diretta, concreta ed attuale di propri interessi del genere, né degli enti territoriali in sostituzione dei quali hanno agito. Accertata la competenza giurisdizionale del giudice ordinario, bisogna ora delineare la portata dei limiti interni della stessa. Le richieste formulate nel ricorso ex art. 700 c.p.c. riguardavano la cessazione di ogni forma di detenzione carceraria delle persona trattenute nel CIE di Bari, nonché l’adozione di ogni misura ritenuta idonea ad assicurare provvisoriamente gli effetti dell’emananda decisione di merito. Nel caso di mancato accoglimento di tali richieste, gli attori popolari insistevano nella richiesta di ordinare in via d’urgenza alle amministrazioni convenute/resistenti di eseguire immediatamente e nel termine da fissarsi tutti gli interventi necessari per migliorare le condizioni psicofisiche delle persone trattenute nel CIE. Secondo un consolidato indirizzo del Supremo Collegio, l’inosservanza da parte della p.a. nella gestione e manutenzione dei beni che ad essa appartengono, delle regole tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato dinanzi al giudice ordinario sia quando la domanda è volta a conseguire la condanna della p.a. al risarcimento del danno patrimoniale, sia quando è volta a conseguire la condanna della stessa ad un facere, giacché la domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell’Amministrazione, ma attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere (così, tra le più recenti, Cass., sez. un., 2.12.2011, n. 25764; id., sez. un., 14.3.2011, n. 5926). Si veda anche Cass., sez. III, 25.2.1999, n. 1636: “Il divieto imposto al giudice ordinario dall’art. 4 l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. E di condannare la p.a. ad un ‘facere’ specifico, non opera nel caso in cui sia stata richiesta al giudice ordinario la rimozione di situazioni materiali riconducibili all’attività della p.a. che si presentino in contrasto con i precetti posti dalla prudenza e dalla tecnica a salvaguardia di diritti soggettivi altrui. In tal caso, infatti, non viene in discussione l’esercizio del potere, normalmente discrezionale, della stessa p.a. ma la necessità del ripristino delle condizioni di legalità per il che non può configurarsi la possibilità di una scelta diversa rispetto a quella costituita da tale ripristino”. Tutto quanto sopra esposto, risulta chiarita e provata la competenza giurisdizionale del giudice ordinario, con conseguente rigetto della eccezione proposta dalle amministrazioni convenute. Sempre con riguardo alle questioni preliminari, i convenuti eccepivano la carenza di legittimazione attiva degli attori popolari, nonché la carenza di legittimazione passiva delle Amministrazioni statali evocate in giudizio. Gli stessi sostenevano che il soggetto legittimato passivamente sarebbe l’ente gestore del centro, ossia la R.T.I. Ente O.E.R./Ladisa spa/Medica Sud s.r.l. Veniva del pari eccepito il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, poiché la materia dell’immigrazione sarebbe di competenza del Ministero dell’Interno ex d.lgs. n. 300/1999. Tutte le eccezioni mosse in tal senso sono prive di fondamento. Sussiste, infatti, piena legittimazione ad agire in capo non solo agli Enti locali, ma anche in capo ai cittadini elettori Luigi Paccione e Alessio Carlucci, così come sussiste la legittimazione a contraddire in capo a tutte le Amministrazioni statali citate. Dagli attori sono stati allegati fatti in astratto del tutto idonei a fondare in giudizio il diritto da loro azionato. Ci si riferisce a fatti “in astratto” idonei a fondare il diritto in quanto la legittimazione attiva, come quella passiva, prescinde dalla effettiva titolarità in concreto del rapporto dedotto in causa; tale specifica circostanza è, infatti, proprio l’oggetto di accertamento nel processo. La titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, è questione diversa dalla legittimazione ad agire e a contraddire: essa attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Ciò è stato da ultimo confermato anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza del 16 febbraio 2016, n. 2951. Tutto quanto eccepiscono le resistenti per escludere la legitimatio attiva e/o passiva ad causam attiene alla titolarità sul piano del diritto sostanziale delle situazioni giuridiche controverse, dal lato attivo e passivo, e quindi al merito della causa in senso stretto. Per questi motivi, tali eccezioni devono essere integralmente rigettate. La legittimazione ad agire costituisce condizione all’azione. Essa si basa sulle mere allegazioni fatte nell’atto introduttivo. Una concreta e autonoma questione intorno alla legittimazione attiva si potrebbe delineare soltanto qualora parte attrice facesse valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretendesse di ottenere una pronunzia contro il convenuto, pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso (così, ad es., tra le tante, di recente, Cass., sez. III, 30.5.2008, n. 14468; e in termini id., sez. III, 9.4.2009, n. 8699). È di tutta evidenza che, nel caso che ci occupa, nell’impostazione delle domande degli attori non è assolutamente rinvenibile quella sorta di autocontraddizione che al fondo è sempre insita nella carenza di legittimazione attiva. Invero, come risulta chiaramente dall’atto introduttivo, gli attori non hanno affatto agito in giudizio facendo valere diritti altrui prospettandoli come propri. Anzi, i due istanti hanno agito nei confronti delle stesse amministrazioni ai sensi dell’art. 9, comma 1, d.lgs. n. 267/2000, dichiarando di farlo Luigi Paccione in sostituzione del Comune di Bari, e ambedue in sostituzione della Provincia di Bari, per l’esercizio del diritto dei detti Enti locali a garantire il rispetto nel proprio territorio degli inviolabili diritti umani. L’art. 9 d.lgs. n. 267/2000 costituisce uno dei casi in cui, derogando all’art. 81 c.p.c., può aversi un legittimo fenomeno di sostituzione processuale. Tale disposizione, a ben vedere, conferisce al cittadino elettore dell’ente locale una forma di “legittimazione speciale”, la quale, pur fondata sulla titolarità propria e diretta di una posizione giuridica, costituisce tuttavia titolo autonomo. Tale titolo per adire il giudice, infatti, è fondato sulla previsione di legge e sul presupposto di essere cittadino elettore, ancorché la titolarità delle posizioni giuridiche che si intendono tutelare sia dell’ente locale (così Cons. di Stato, sez. IV, 9.7.2011, n. 4130). È bene precisare che la questione relativa alla legittimazione attiva veniva già sollevata, con riguardo alle medesime parti, in sede di A.T.P. Le eccezioni formulate dai convenuti, volte ad escludere la legitimatio ad causam, venivano in quella sede respinte dal Presidente di questo Tribunale; con la summenzionata ordinanza resa in data 2/3 marzo 2011 si affermava infatti la sussistenza della legittimazione ad agire sia degli Enti locali, sia dei cittadini elettori ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 267/2000. È bene precisare che questi ultimi, inoltre, hanno esercitato l’azione non in contrasto con la volontà espressa dagli enti locali da loro rappresentati. Devono anche rigettarsi tutte le eccezioni relative alla carenza di legittimazione passiva delle Amministrazioni convenute per le ragioni già esposte. La legittimazione a subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa è infatti anch’essa indipendente dalla reale titolarità passiva di tale rapporto (Cass. civ., sez. I, 16.5.2013, n. 11984). In ordine a quanto allegato dagli attori, ben può affermarsi la legittimazione passiva delle Amministrazioni citate nell’odierno giudizio, quali enti responsabili del sistema di accoglienza sul territorio e, di conseguenza, di tutti i centri per l’immigrazione, ivi compresi i Centri di Identificazione ed Espulsione. Le rimostranze degli attori con riguardo al CIE di Bari sono imputabili al soggetto che ha realizzato il Centro stesso, collocandolo sul territorio barese, e che ne consente l’utilizzo ai fini del trattenimento degli immigrati. Alla luce di tali motivazioni, sussiste legittimazione ad agire degli attori, nonché legittimazione passiva a stare in giudizio delle Amministrazioni convenute, con conseguente rigetto delle eccezioni formulate sul punto da queste ultime. Passando al merito della questione, viene in primo luogo richiesta dagli attori la chiusura del CIE. È bene però precisare che in corso di causa si sono verificate numerose rivolte interne al Centro: esso veniva chiuso nel 2016. Conseguentemente, indipendentemente dall’analisi circa la possibilità di adottare un provvedimento di chiusura siffatto, sussiste in relazione a tale richiesta un difetto sopravvenuto dell’interesse ad agire. L’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. costituisce un requisito per la trattazione del merito della domanda, e consiste nell’esigenza di ottenere un risultato utile e giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice (Cass., sez. III, 5.03.2007, n. 5074, nonché Sez. Un. 10.08.2000 n. 565). Il suddetto interesse è certamente da escludere qualora la domanda abbia ad oggetto una situazione priva di qualsiasi utilità pratica. Il sopravvenuto difetto di interesse ad agire può essere rilevato dal giudice in qualsiasi stato e grado del giudizio, proprio al fine di evitare inutili attività processuali. L’interesse ad agire deve necessariamente avere carattere attuale (Cass. Sez. Un. 15.1.1996 n. 264; 18.4.2002, n. 5635), in quanto i fatti devono essere accertati dal giudice, al momento della decisione, solo se posti a fondamento di un diritto fatto valere in giudizio. Diversamente, la pronuncia sulla domanda sarebbe priva di qualsiasi rilievo pratico. Nonostante il CIE risulti essere stato chiuso soltanto temporaneamente (per quel che è dato conoscere), e non in via definitiva, in ogni caso ciò che rileva è il suo stato attuale. Attualmente il Centro non è in attività, né si conosce ad oggi con assoluta certezza se e quando lo stesso verrà riaperto. Alla luce di tali considerazioni, si ritiene di non dover esaminare nel merito la domanda relativa alla chiusura del CIE di Bari. Per lo stesso motivo si ritiene di dover dichiarare inammissibili anche le connesse richieste in ordine agli interventi di esecuzione delle opere necessarie per rendere il Centro in questione conforme alla normativa in vigore, nonché quelle riguardanti l’esatta rilevanza giuridica delle Linee Guida del 2009. Trattasi infatti di domande sulle quali non risulta ravvisabile alcun concreto ed attuale interesse ad agire degli attori popolari. La seconda questione di merito in esame riguarda la richiesta di risarcimento del danno per le condizioni di detenzione cui erano sottoposti i trattenuti nel CIE di Bari. Prima di affrontare tale domande, è bene fare una premessa. I CIE sono “Centri di Identificazione ed Espulsione” e la loro finalità è quella di trattenere gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera”, nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile. Essi sono stati istituiti in ottemperanza a quanto disposto dall’articolo 12 della legge Turco-Napolitano (L. 40/1998). Come anche ritenuto dalla Suprema Corte (Cass. Sez. VI, 14.05.2013 n. 11451): “Il trattenimento dello straniero, che non possa essere allontanato coattivamente contestualmente all’espulsione, costituisce una misura di privazione della libertà personale, legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata, l’autorità amministrativa è, pertanto, priva di qualsiasi potere discrezionale in virtù del rango costituzionale e della natura inviolabile del diritto inciso, la cui conformazione e concreta limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge prevista dall’art. 13 della Costituzione, così come anche il controllo giurisdizionale deve estrinsecarsi nei medesimi limiti, non potendosi estendere, in mancanza di una espressa previsione di legge, nell’autorizzazione di proroghe non rigidamente ancorate a limiti temporali legislativamente imposti; ne consegue che il limite normativo per ciascuna frazione temporale non può essere oltrepassato neanche quando ciò rientri nel limite finale complessivo, risolvendosi l’eventuale violazione nella nullità integrale del provvedimento adottato”. Va inoltre sottolineato che nell’ordinanza ammissiva dell’ATP, il Presidente del Tribunale di Bari evidenziava che “i CIE sono da considerarsi idonei se le strutture, l’organizzazione-gestione della permanenza degli stranieri, l’indice di occupazione siano tali da assicurare a coloro che vi sono trattenuti necessaria assistenza e rispetto pieno della loro dignità”. Sia dal sopralluogo sia dalla relazione di c.t.u., seppur contraddittoria in alcuni punti (come esposto ut supra), è emerso che le condizioni di vita all’interno del CIE di Bari-Palese non sono affatto adeguate ad assicurare quel minino di soggiorno/ convivenza dignitosa, tanto che la situazione spesso è degenerata in atti estremi (risse, atti incendiari, atti autolesionistici, ecc.). Tutto questo, però, non può giustificare l’accoglimento della domanda proposta dagli attori popolari circa il risarcimento del danno per le condizioni di detenzione. Su questo punto si riscontra infatti la carenza della legittimazione ad agire degli stessi. Ed infatti, la legittimazione ad agire serve ad individuare la titolarità dell’azione, cioè a verificare a chi essa spetti proporre la domanda: il diritto d’azione compete a chiunque faccia valere nel processo un diritto assumendo di esserne il titolare. L’ordinamento giuridico ha poi individuato dei casi espressamente indicati dal legislatore in cui è consentito far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui: si tratta della cosiddetta legittimazione straordinaria (altrimenti detta di sostituzione processuale, ex art. 81 c.p.c.), caratterizzata dal fatto che il sostituto processuale è abilitato ad agire in nome proprio per ottenere una decisione su un rapporto giuridico di cui è titolare il sostituito. È bene evidenziare che in questo caso specifico l’attore agisce comunque a tutela di un proprio diritto o interesse, anche se tale diritto, di regola, resta estraneo all’oggetto del giudizio, vertendo esclusivamente sull’altrui rapporto giuridico dedotto in forza della legittimazione straordinaria. Fatta questa premessa, la domanda di risarcimento del danno per le condizioni di detenzione all’interno del CIE di Bari non è ammissibile perché non è stata proposta dai diretti interessati (i trattenuti nel CIE), ma dagli attori popolari. Ognuno dei singoli “trattenuti” in tali centri, infatti, ben avrebbe potuto adire il giudice ordinario per dolersi del trattamento subito dall’applicazione di tale misura (a tal proposito si può confrontare la già menzionata Cass. Sez. Un. n. 9596/2012). Quindi solo i trattenuti nel CIE avrebbero potuto e dovuto proporre la domanda al giudice ordinario, pur nella sussistenza dei limiti oggettivi che indubbiamente sussistono. È evidente che tale casistica è abbastanza rara, in quanto tali soggetti versano in un’evidente situazione di “minorata difesa”, della quale non si può che prendere atto. Pertanto, la richiesta di risarcimento del danno per le condizioni di detenzione proposta dagli attori popolari non può trovare accoglimento da parte di questo Giudice e va conseguentemente rigettata. La seconda domanda risarcitoria formulata è quella relativa al danno all’immagine che il Comune di Bari avrebbe subito a seguito dell’apertura del CIE. Tale richiesta risarcitoria, a differenza della prima, è da accogliersi. Il Comune di Bari aveva, con deliberazione consiliare n. 149 del 15 novembre 2004, espresso la sua contrarietà e quella dell’intera comunità a ospitare il Centro in questione. Tuttavia né il Comune stesso, né altro ente territoriale astrattamente interessato alla vicenda, è stato mai coinvolto dalle Amministrazioni statali nella procedura di installazione del Centro sul territorio barese. I comuni, in generale, sono sprovvisti di qualsiasi competenza amministrativa diretta in relazione ai CIE, poiché l’art. 14, comma 9, d.lgs. n. 286/1998 si limita a far cenno ad un marginale coinvolgimento anche degli “enti locali” ai fini dell’adozione dei “provvedimenti occorrenti per l’esecuzione di quanto disposto” dallo stesso articolo. Tuttavia non può negarsi che tali enti, e in primo luogo il Comune ove viene direttamente collocato il Centro, “subiscono” la presenza dello stesso a seguito della deliberazione dell’Amministrazione statale a livello centrale. I CIE sono gestiti sotto la responsabilità di quest’ultima Amministrazione, senza che venga accordata alcuna possibilità di partecipazione effettiva agli enti locali nel procedimento per la loro concreta realizzazione e gestione. Il Comune di Bari, pertanto, per tutto il tempo in cui il CIE è stato attivo è stato assoggettato alle determinazioni dell’Amministrazione statale e alle modalità in cui la stessa ha voluto gestire il Centro. I Centri di Identificazione ed Espulsione sono noti all’opinione pubblica per essere luoghi di detenzione amministrativa degli stranieri ove si perpetrano significative restrizioni della libertà personale. Non sono poche, infatti, le notizie di cronaca che hanno ad oggetto le condizioni assai logoranti in cui versano gli immigrati all’interno di tali Centri presenti in tutto il territorio italiano. Al loro interno si realizza un trattenimento degli stranieri sino alla loro espulsione, che costituisce senz’altro una misura di privazione della libertà personale, realizzabile in forma legittima soltanto qualora sussistano le condizioni giustificative previste dalle legge, nonché secondo una modulazione dei tempi (in teoria) rigidamente predeterminata (Cass. civ., sez. VI, 14.5.2013, n. 11451). Si tratta, più nel dettaglio, di centri chiusi, dotati di dispositivi di sorveglianza e sicurezza, assimilabili sotto molteplici punti di vista a strutture carcerarie. Già nel 2001 la Corte Costituzionale con sentenza n. 105 si è espressa riconoscendo il carattere in sostanza detentivo dei CIE, un tempo denominati “Centri di permanenza temporanea e di assistenza”. La cronaca quotidiana mostra, inoltre, numerosi episodi di permanenza prorogata oltre gli ordinari limiti di legge nei Centri in questione, in condizioni fisiche, igieniche e soprattutto psicologiche logoranti per chi vi è costretto. Tutto ciò ha spesso indotto l’immaginario comune ad associare i CIE in tutto e per tutto a delle carceri. Dalle risultanze probatorie dell’odierno giudizio è emerso che il regime di trattenimento previsto per il CIE di Bari sarebbe stato addirittura meno garantistico per la libertà personale di quello previsto in un normale carcere. La circostanza per cui il c.t.u., circa la tesi dei c.t.p. degli attori e del Comune di Bari secondo la quale il CIE collocato nel Comune avrebbe costituito di fatto una struttura carceraria, si sia limitato a rispondere che “le caratteristiche costruttive della predetta struttura sono evidentemente dettate da motivi di sicurezza, sia per impedire la fuoriuscita dei trattenuti che per evitare che con l’uso di oggetti mobili possano arrecate danni a se stessi e al personale preposto alla gestione”, non prova che la struttura in sé non sia risultata inadeguata a fornire una sostanziale tutela alla dignità umana. Al consulente tecnico d’ufficio non competeva di definire sul piano tassonomico il centro in esame e, men che meno, di trarre conclusioni giuridiche a riguardo, in quanto ciò è di competenza esclusiva del Tribunale. Tuttavia, è bene specificare sin d’ora che ai fini dell’accoglimento della domanda relativa al risarcimento del danno all’immagine subito dal Comune di Bari non è neppure di definitiva importanza l’esatta qualificazione formale da fornire al Centro. Se sia o meno da qualificarsi come struttura carceraria a tutti gli effetti non è di centrale rilievo, poiché ciò che importa sono le modalità con le quali gli stranieri sono stati trattenuti, per colpa di carenze dell’Amministrazione statale. È questa circostanza, infatti, che ha condotto l’immagine e la reputazione della città di Bari ad essere danneggiata. Con riguardo a quanto poi quanto asserito dai c.t.p., per cui le condizioni assicurate ai detenuti nelle strutture carcerarie sarebbero, in teoria, più “garantiste” rispetto a quelle riservate agli immigrati presenti nel CIE di Bari, altrettanto correttamente il consulente d’ufficio si è astenuto dall’esprimersi su un aspetto che non rientrava nei compiti affidatigli. Pertanto, al di là di tali specifiche risposte che si pretendevano dal consulente d’ufficio, bisognerà analizzare le risultanze oggettive emergenti dalla relazione peritale. Di certo non possono negarsi criticità nella gestione del Centro. In spregio ad una corretta forma di rispetto della dignità dei trattenuti, la situazione del Centro prima della sua chiusura sarebbe stata tale da non raggiungere quella “pienezza” di detto rispetto che la legge esige. Proprio sulla base della consulenza tecnica d’ufficio espletata, emerge che il quomodo del trattamento dei trattenuti nel Centro trasmodava nell’illegalità. Tali manchevolezze sono di certo sindacabili dinanzi a questo Giudice ordinario per le conseguenze dannose subite dagli enti locali qui sostituiti. Il CIE costituiva, pertanto, una peculiare struttura ove le modalità di trattenimento degli immigrati risultavano di fatto contrarie alle norme e ai principi invocati dagli istanti. Tale circostanza può senz’altro essere foriera di un danno all’immagine e all’identità storico-culturale del Comune di Bari, anche alla luce delle vicende che hanno interessato il Centro e che hanno ricevuto una grande eco mediatica, con conseguenti riflessi negativi di vario genere. Se infatti i CIE sono noti alla cronaca per le significative restrizioni ai diritti fondamentali che vengono perpetrate ai danni degli immigrati, d’altro canto la città di Bari è nota, invece, per essere da sempre un territorio di accoglienza per gli stranieri. È proprio questo il peculiare connotato che giustifica la concessione di un risarcimento del danno all’immagine del Comune. Lo Statuto della città di Bari, espressione di autonomia politica dell’ente, descrive il capoluogo della Regione Puglia quale “comunità aperta a uomini e donne, anche di diversa cittadinanza e apolidi” (art. 1, comma 1, dello stesso), e “luogo tradizionale di incontri e di scambi”, che ha “la vocazione di legare civiltà, religioni e culture diverse, in particolare quelle del Levante e quelle Europee” (art. 1, comma 2). La disposizione è un chiaro riferimento all’apertura e all’accoglienza che contraddistingue da sempre la città. Inoltre, l’ultimo riferimento va a positivizzare la tradizione di rapporti con i Paesi dell’Est europeo a noi più vicino. Il Comune di Bari, infatti, si propone come “deputato, anche per la sua collocazione geografica, ad agire quale polo di riferimento dello sviluppo del Mezzogiorno, del Mediterraneo e dei Balcani” (art. 2, comma 2). Esso inoltre “promuove lo sviluppo sociale, culturale, economico e turistico” della propria comunità (art. 2, comma 1), ma anche “sostiene e promuove l’affermazione dei diritti umani, la cultura della pace, della cooperazione internazionale e dell’integrazione etnico-culturale, ispirandosi ai principi dell’unità e dell’integrazione dell’Unione Europea” (art. 3, comma 2). Infine, Bari “tutela e valorizza le diverse realtà etniche, linguistiche, culturali, religiose e politiche presenti nella città, rifacendosi ai valori della solidarietà e dell’accoglienza, in conformità alle tradizioni della città e alla sua vocazione di città aperta”. La fonte primaria dell’ente locale è cristallina nel delineare i connotati della città in riferimento ai suoi ideali di accoglienza. Anche la Provincia di Bari, a livello statutario, nel proprio ambito, “ispira l’azione amministrativa al principio della solidarietà ... Promuove il processo civile, sociale, economico e culturale della Comunità della Provincia di Bari, finalizzato all’autentico sviluppo della persona umana. Promuove iniziative e sviluppa relazioni per la salvaguardia della pace, della solidarietà, delle cooperazione e per il reciproco sviluppo delle iniziative economiche, sociali e culturali con le altre Province, Regioni, Nazioni e Stati, in particolare con quelli del vicino Adriatico, del Mediterraneo, del Medio Oriente” (art. 1, comma 4, dello Statuto). Tali disposizioni non sono prive di riscontro pratico dal punto di vista storico. La eterogeneità di realtà etniche, linguistiche, culturali, religiose e politiche è parte integrante della cultura barese sin dalla nascita di Bari. Dall’anno 2000 a.c. circa, infatti, la città ha subito numerose dominazioni straniere: dagli Illirici, Peucezi e antichi Greci (dal 1600 a.C. al 326 a.C.), passando per i Romani (dal 326 a.C. al 476 d.C.), gli Ostrogoti (dal 476 al 554), i Bizantini (dal 554 al 668, nonché, successivamente di nuovo nell’876 sino al 1071), i Longobardi (dal 668 all’847, nonché poi tornati dall’872 all’876), i Saraceni (dall’847 all’872), i Normanni (dal 1071 al 1189), gli Svevi (dal 1189 al 1268), gli Angioini (dal 1268 al 1442), gli Aragonesi e gli Sforza (dal 1442 al 1557), gli Spagnoli (dal 1557 al 1713), gli Asburgo (dal 1713 al 1734), i Francesi (dal 1799 al 1815), fino ai Borbone di Spagna (dal 1734 al 1798, e poi di nuovo dal 1815 al 1860). Con la deposizione del Re Francesco II di Borbone nel 1860, Bari entrò a far parte dell’Italia Unita, mettendo definitivamente fine a circa tre millenni di dominazione straniera. Lo straniero è, pertanto, parte integrante della storia barese. Secondo i dati ISTAT, i residenti stranieri a Bari nel 2015 ammontavano a più di dodicimila. Centotrentatré, invece, il numero delle diverse nazionalità di tali residenti. Essi risultavano provenienti da tutti i continenti del mondo: Asia in via prevalente, ma anche altri Paesi europei, Africa, America e persino Oceania. Ma al di là di quello che potrebbe essere un mero fenomeno dovuto alla globalizzazione, è ben dimostrabile che la città di Bari sia un simbolo di accoglienza per lo straniero e di integrazione con altre culture. I riferimenti statutari all’apertura nei confronti delle popolazioni dell’Est Europa non sono di rilievo soltanto fittizio, sulla carta, costituendo invece le tradizioni di quei Paesi parte integrante della nostra cultura. È sufficiente far riferimento al Santo Patrono della città, San Nicola, al quale è stata dedicata la basilica presente nel centro storico, “Bari vecchia”. La circostanza per la quale le reliquie del Santo di Myra riposano nella basilica ha permesso alla città di divenire un fondamentale centro di comunicazione interreligiosa tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. Dette reliquie, in particolare, sono conservate all’interno della cripta, nella quale è stato costruito un altare per il culto ortodosso. La basilica rappresenta uno dei pochi luoghi al mondo frequentati contestualmente da fedeli appartenenti alle due diverse confessioni cristiane. In occasione di celebrazioni solenni, si ritrovano a pregare nel cuore della città i cattolici assieme agli ortodossi italiani, greci, georgiani, africani, russi e rumeni. Essa è inoltre sede di numerosi pellegrinaggi religiosi, accogliendo credenti provenienti da ogni parte del mondo. Tuttavia, non solo quello religioso è il turismo interessato a Bari. Il porto della città è, infatti, il maggiore scalo passeggeri del mar Adriatico. Bari è città di approdo delle più prestigiose compagnie italiane di navi da crociera (Costa Crociere, MSC Crociere), le quali salpano e sbarcano nel porto della cittadina quasi quotidianamente. Inoltre, Bari è risultata essere una città con un altissimo tasso di crescita turistica, specialmente negli ultimi tempi. Gli arrivi e le presenze dei turisti si registrano in percentuali sempre maggiori ogni anno. Secondo un monitoraggio dell’Ente Nazionale Italiano del Turismo, inoltre, la città di Bari nel 2016 sarebbe risultata la prima città in tutta Italia per trend di crescita quanto a turismo virtuale, con il 45, 1% in più rispetto all’anno precedente. L’aeroporto Karol Wojtyla, infine, è considerato ormai uno scalo di eccellenza nazionale, con un aumento significativo di mese in mese di persone che vi transitano. Oltre al turismo, di indubbia e centrale importanza per la città, la collocazione geografica della città di Bari sul suolo nazionale ha permesso lo svilupparsi di una vitale tradizione imprenditoriale e mercantile. I commerci, in particolare, si sono sviluppati principalmente con l’Est Europa e il Medio Oriente. A Bari, inoltre, si tiene una tra le principali esposizioni fieristiche d’Italia, la Fiera del Levante, sin dal 1930. Tale Fiera è particolarmente importante per i commerci in quanto da sempre favorisce i contatti fra espositori del mercato centromeridionale, del Sud-Est europeo e, in generale, dell’area mediterranea. I visitatori provengono ogni anno da tutta l’Europa e dal bacino del Mediterraneo. Principale obiettivo dichiarato della Fiera è l’internazionalizzazione dell’economia non soltanto barese, ma di tutta l’Italia meridionale. La città di Bari è inoltre stata sede del segretariato per il Corridoio paneuropeo VIII, uno dei dieci in totale progettati per favorire il trasporto di persone e merci nell’Europa centrale e orientale. Il Corridoio in questione è un diretto collegamento della città con l’Albania, la Macedonia e la Bulgaria. Quanto proprio ai rapporti con l’Albania, è bene ricordare che, in occasione dei fatti drammatici seguiti all’attracco nel porto di Bari della nave mercantile Vlora l’8 agosto 1991, carica di circa 20.000 immigrati albanesi partiti da Durazzo, taluni di questi immigrati, dispersisi in città, trovarono rifugio in qualche famiglia o in chiese. La nave, stracolma di persone, fu dapprima respinta a Brindisi, che aveva già accolto nel marzo dello stesso anno migliaia di profughi; successivamente, venne dirottata a nord, verso Monopoli, per poi essere agganciata da rimorchiatori ed essere ormeggiata nel porto di Bari, che l’accolse. Furono forniti aiuti alimentari, vestiario e medicinali. Il Sindaco dell’epoca assunse una posizione di chiara contrapposizione con la “dura” linea di gestione della vicenda adottata a livello governativo, secondo la quale, tra l’altro, i suddetti immigrati furono temporaneamente concentrati in massa all’interno del locale Stadio della Vittoria. Questo non è l’unico episodio di accoglienza che ha interessato la città di Bari. Per evidenziare solo uno degli episodi più recenti, nella scorsa primavera sono stati indirizzati numerosi sbarchi di immigrati verso il porto di Bari dalla Sicilia, per mettere in sicurezza la città di Taormina, ove si è svolto il G7. Dalla cittadinanza sono stati raccolti, anche grazie all’ausilio delle istituzioni comunali, alimenti, vestiti, scarpe, biancheria intima, e altri beni di ogni genere per centinaia di africani e siriani. Nessuna barricata, nessuna protesta, ma solidarietà e accoglienza. Si ricorda, inoltre, che il Comune di Bari è stato il primo in Italia a lanciare un progetto di ospitalità degli immigrati all’interno delle abitazioni dei cittadini, in famiglia. Alla luce di tutte queste caratteristiche che connotano Bari, la sua cultura e la sua storia, emerge un netto contrasto con la presenza su tale territorio del CIE, così come gestito dall’Amministrazione statale. È quest’ultima, infatti, ad essere la responsabile delle modalità di trattamento degli stranieri ivi collocati. È stata senz’ombra di dubbio minata l’immagine della comunità locale barese. Oltre ad un palese danno all’immagine, non può neppure trascurarsi l’incombente pericolo di seri problemi per l’ordine pubblico e la sicurezza nel territorio, connessi agli accadimenti quali incendi e rivolte nel Centro, nonché al rischio di fughe dei soggetti trattenuti nel CIE, alimentato, a sua volta, dalle condizioni in cui essi erano ristretti. Come già efficacemente esposto dal Presidente di questo Tribunale, nella sua ordinanza del 3 marzo 2011, “per la verifica della idoneità dei Centri di Identificazione ed Espulsione previsti dal Decreto Legislativo 25 luglio 1998 n. 286 ... esiste un solo parametro certo, quello offerto dal disposto del comma 2 dell’art. 14 dello stesso Decreto Legislativo: ‘Lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità”. Il CIE di Bari, viste le risultanze probatorie, non risulta di certo idoneo all’assistenza dello straniero e alla piena tutela della sua dignità in quanto essere umano. Il risarcimento è ritenuto necessario per via dell’ingente danno arrecato alla comunità territoriale tutta, da sempre storicamente dimostratasi aperta all’ospitalità, per via delle scelte gestionali dell’Amministrazione statale. Quest’ultima, è rimasta inerte dinanzi a numerose segnalazioni circa le condizioni in cui versavano gli immigrati del CIE, nonché dinanzi a richieste di verifica delle condizioni igienico-sanitarie del Centro. Anche a seguito della espletata consulenza resa in sede di A.T.P. e depositata nel giugno 2011, l’Amministrazione statale è intervenuta per apportare solo modesti e quasi del tutto insignificanti miglioramenti. Da ultimo, nessuna repentina reazione è scaturita dall’ordinanza del 3/9 gennaio 2014 proveniente da questo Tribunale che così disponeva: “ordina a queste ultime p.a. (ossia la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno e la Prefettura di Bari - Ufficio Territoriale del Governo), ognuna nell’ambito delle rispettive competenze, di procurare che siano eseguiti i seguenti interventi presso il CIE di Bari-Palese: - provvedere allo stato manutentivo dei servizi igienici, all’ampliamento delle loro dimensioni ridotte e all’aumento del loro numero, in quanto insufficienti rispetto alle Linee Guida ministeriali ed. 2009; - risolvere la problematica rappresentata dalla mancanza di un sistema di oscuramento, anche parziale, delle finestre delle stanze alloggio; - riportare la sala mensa o ‘sala benessere’ alle dimensioni indicate nelle cit. Linee Guida; - incrementare le aule per le attività occupazionali, didattiche e ricreative, nonché le ulteriori strutture ed attrezzature sportive; - provvedere a colmare la carenza di segnaletica antincendio nei moduli abitativi; - provvedere agli interventi di manutenzione programmata ai moduli abitativi con l’impiego di materiali più resistenti all’usura e allo strappo; - valutare l’opportunità di dotare le camere-alloggio di un sistema di ventilazione forzata, assegnando allo scopo il termine improrogabile di giorni 90 a far tempo dalla comunicazione all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bari della presente ordinanza, e stabilendo sin d’ora che, in caso di mancata o parziale esecuzione di quanto così disposto entro tale termine, tutti gli stranieri ancora ivi ‘trattenuti’ in quel momento debbano essere trasferiti, a cura e spese e sotto la responsabilità delle stesse p.a., in analoghi Centri d’identificazione e di espulsione, rispondenti ai requisiti previsti dalle norme vigenti”, tanto che nel corso del giudizio si è reso necessario nominare un commissario ad acta. Stante tale condotta assunta dalle odierne Amministrazioni convenute, non potrebbe non ravvisarsi una responsabilità negligente a loro carico. Le carenze riscontrate nel CIE di Bari non rientravano tra le prestazioni appaltate al gestore e quindi nella responsabilità di quest’ultimo, ma esse attenevano soprattutto a modalità costruttive che, come giustamente evidenziato dal consulente tecnico d’ufficio, a loro volta incidono sulla situazione degli ambienti e conseguentemente sulla loro vivibilità da parte degli occupanti. È del tutto evidente che su tali ultimi aspetti solo le Amministrazioni statali convenute erano in grado di intervenire. Le stesse sono sì, nel corso del tempo, intervenute, ma in modo parziale, e comunque nonché tardivo. Alla luce di tanto, le condizioni del trattamento di coloro che erano trattenuti nel CIE di Bari- Palese non potevano di certo dirsi pienamente rispondenti alle previsioni di cui all’art. 14, comma 2, del t.u. Il danno all’immagine si giustifica alla luce di quella che è una normale identificazione, storicamente provata, tra luoghi ove si perpetrano violazioni dei diritti della persona e il territorio che li ospita. Sono davvero molti gli esempi di luoghi e città che sono rimasti saldamente legati in senso negativo alle strutture di costrizione e di sofferenza di esseri umani che vi erano allocati. Si pensi ad Auschwitz, luogo che richiama alla mente di tutti immediatamente il campo di concentramento simbolo dell’olocausto, e non di certo la cittadina polacca sita nelle vicinanze. Ma si pensi anche a Guantanamo, ad Alcatraz: istintivamente il pensiero corre subito e soltanto ai noti luoghi di prigionia di massima sicurezza, e non certo alla base navale nell’isola di Cuba all’interno della quale il primo è ubicato, né tantomeno all’isola nella baia di San Francisco ove era sito il carcere. Le immagini che appaiono nella mente sono quelle allusive ormai per antonomasia a delle strutture detentive caratterizzate da durezza e rigidità estreme. Ma senza andare troppo lontano a livello geografico, questo tipo di associazioni mentali avviene anche con riguardo a luoghi presenti in Italia. Come già chiaramente evidenziato nella summenzionata ordinanza del 3/9 gennaio 2014, “la ‘sineddoche’, ormai, colpisce luoghi che più direttamente ci riguardano, perché il nome Lampedusa ormai evoca immediatamente più ‘la parte’, vale a dire, il campo-profughi che vi è ospitato (insieme con i periodici e per lo più drammatici approdi di migranti dal mare e con i fatti anche luttuosi o ‘scandalosi’ che vi sono accaduti, e vi accadono), che il ‘tutto’, e cioè l’isola protesa nel Mediterraneo e piena di attrattive che porta quel nome. Tutto questo, poi, dipende, non già da un’amplificazione distorsiva del circuito mediatico, ma da fatti reali, ormai documentati e storicamente assodati, e addirittura in corso di accadimento. Appare superfluo qui soffermarsi in dettaglio su tutto quanto ha riguardato, e riguarda, Lampedusa (che si dà per notorio), e sui danni innegabilmente dalla stessa risentiti per la cennata situazione, tuttora attuale, se non perché quel caso esemplifica nel modo più evidente il notevolissimo pregiudizio che una comunità locale può incolpevolmente accusare solo per essere il suo territorio in una determinata posizione geografica e/o per ospitare un centro del genere (si noti che l’art. 14, comma 1, d.lgs. n. 286/1998 prescrive il trattenimento ‘presso il centro di identificazione ed espulsione più vicino’).”. La vicenda di Lampedusa, in particolare, si è ulteriormente aggravata a seguito della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 1 settembre 2015, Khlaifia e altri c. Italia. In particolare, oggetto della vicenda non era un CIE, bensì un Centro di Soccorso e Prima Accoglienza. Tuttavia, nonostante la diversità del centro preso in considerazione, ciò che qui rileva è che la condanna dell’Italia rappresenta un ulteriore elemento che danneggia l’immagine pubblica di Lampedusa, proprio in quanto associata alle vicende relative al Centro ivi collocato. Questo tipo di associazioni sono foriere di danno all’immagine per gli enti territoriali in quanto ne pregiudicano la visibilità. In caso in cui notizie particolarmente gravi e riprovevoli sui CIE nonché sulle modalità di gestione degli stessi si diffondano nel territorio, ne uscirebbe con tutta certezza pregiudicata la reputazione dell’ente. Il diritto all’immagine, in generale, deve essere interpretato in un’accezione la più ampia possibile, ossia come comprensiva della tutela dell’identità personale, del nome, della reputazione e della credibilità. Ciò vale non solo per le persone fisiche, ma anche per le persone giuridiche. È ormai cristallizzato nel nostro sistema giuridico l’indirizzo secondo il quale anche le persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, e quindi anche un Comune, possono essere lesi in quei diritti immateriali della personalità che sono compatibili con l’assenza di fisicità, quali i diritti all’immagine, alla reputazione, all’identità storica, culturale, e politica, costituzionalmente protetti ed in tale ipotesi possono agire per il ristoro del danno subito dalla comunità tutta (così Cass. civ., sez. III, 22.3.2012, n. 4542). Il diritto degli enti territoriali all’immagine riveste un’indubbia valenza costituzionale, in quanto direttamente connessa alla tutela delle prerogative inviolabili degli stessi ai sensi del combinato disposto tra l’art. 2 Cost., che tutela le formazioni sociali, e l’art. 97 Cost. Secondo l’attuale ordinamento degli enti locali il Comune è un ente che rappresenta la propria comunità territoriale, curandone gli interessi e promuovendone lo sviluppo (cfr. art. 3, commi 2 e 3, d.lgs. n. 267/2000). È, pertanto, sicuramente riconoscibile in capo a tale ente il titolo a costituirsi parte civile in sede penale e/o il concreto diritto al risarcimento del danno subito, in una serie di casi anche molto diversi e in differenti ambiti di giurisdizione (cfr., senza pretesa di completezza, oltre alla decisione ora cit., Cass. pen., sez. II, 18.10.2012, n. 150; Corte Conti. Reg. Sicilia, sez. giurisd., 3.11.2011, n. 3588). Il Comune può poi anche essere danneggiato da fatti che procurino lesione di interessi propri, giuridicamente tutelati, dell’ente che della collettività danneggiata ha la rappresentanza, come in caso di danno allo sviluppo del turismo e delle attività produttive di essa (Cass. pen., sez. I, 24.7.1992). Quanto al danno all’immagine del Comune di Bari, di certo si è realizzata una conseguenza dannosa per la comunità barese, a seguito delle numerose notizie di cronaca legate al CIE. È stato infatti pregiudicato il diritto del Comune al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica. Ciò genera indubbie ripercussioni sulla collettività stanziata sul territorio, economicamente valutabili in quanto l’Amministrazione locale sarà tenuta a sopportare i costi necessari a correggere gli effetti distorsivi che si riflettono sullo stesso in termini di minor credibilità e prestigio. La Corte di Cassazione ha sostenuto che “secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte poiché anche nei confronti della persona giuridica ed in genere dell’ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e tra tali diritti rientra l’immagine della persona giuridica o dell’ente, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, il danno non patrimoniale costituito - come danno c.d. conseguenza - dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca.” (Cass. Sez. III, 22.03.2012, n. 4542)”. Il CIE di Bari ha formato oggetto di interrogazioni parlamentari e pubbliche denunce di esponenti politici, relative alle condizioni del trattamento di coloro che vi sono ospitati, oltre che di articoli di stampa, e, dall’altro, ha visto accadere reiterati fatti di protesta, se non di rivolta, dei “trattenuti”. La stessa chiusura del CIE è avvenuta in concomitanza dell’ennesima concitata rivolta. Alcuni immigrati hanno spesso adoperato su se stessi atti autolesionistici per attirare l’attenzione sulla loro condizione. Inoltre, incendi e danneggiamenti della struttura sono stati anche il frutto dell’elevato stress psicologico a cui venivano sottoposti i trattenuti, viste le condizioni di degrado. Soltanto nell’anno 2012 sarebbero stati registrati cinquantanove scioperi della fame a livello dimostrativo, cinque episodi di grave danneggiamento della struttura, apparsa sporca e degradata nelle sezioni detentive, tre risse tra gli ospiti e circa cinquanta atti di autolesionismo. Queste, in breve, sono le notizie diffuse nella cronaca locale e nazionale sul CIE di Bari, accessibili a tutti. Al di là delle allegazioni istruttorie fornite dalle parti, già di per sé sufficienti, si giunge alla conclusione della sussistenza del danno all’immagine per il Comune di Bari grazie anche al riferimento a fatti del tutto notori che hanno coinvolto la cittadina barese. Per “fatti notori” ai sensi dell’art. 115, comma 2, c.p. si intendono cognizioni comuni e generali in possesso della collettività nel tempo e nel luogo della decisione, senza necessità di ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici (Cass. civ., sez. III, 21.05.2004 n. 9705). I media sia locali sia nazionali hanno dato ampio spazio alle vicende negative che hanno riguardato il Centro sito in Bari-Palese, legate alle condizioni mortificanti in cui sono stati trattati gli immigrati trattenuti nel CIE medesimo. Le notizie relative al Centro di Bari sono, pertanto, sicuramente di pubblico dominio, ed è proprio per via della grande rilevanza che ha assunto la questione che va disposta la condanna risarcitoria. La comunità locale barese, che ha ospitato per circa dieci anni il CIE sul suo territorio, ha palesemente subito un danno all’immagine a causa della gestione del Centro realizzata dall’Amministrazione statale. Si ritiene tuttavia di dover quantificare, in via equitativa ed ai sensi dell’art. 1226 c.c., il risarcimento in questione nella somma di Euro 30.000,00, posta la insussistenza di una chiara prova in ordine all’entità del danno subito (sul punto si evidenzia che il danno all’immagine risulta circoscritto in ambito territoriale ristretto, non essendo stata provata, in alcun modo, la risonanza, ad esempio internazionale, dello stesso). In particolare, la somma a carico dell’attore va rivalutata dalla data in cui si ritiene cristallizzato il verificarsi del danno (indicata nel momento in cui è stata proposta la domanda introduttiva del presente giudizio, ossia il 26 marzo 2012), ovvero il momento in cui è la somma da quantificarsi è stata monetariamente determinata (c.d. aestimatio) fino alla data della sua liquidazione definitiva (c.d. taxatio), che va fissata al giorno 30 giugno 2017 (in relazione all’ultimo indice ISTAT disponibile). Infatti, la rivalutazione va effettuata applicando sulle somme gli indici della rivalutazione monetaria ricavati dalle pubblicazioni ufficiali dell’Istituto Nazionale di Statistica. Gli indici presi in considerazione sono quelli del c.d. costo della vita, ovverosia del paniere utilizzato dall’ISTAT per determinare la perdita di capacità di acquisto con riferimento alle tipologie dei consumi delle famiglie di operai e impiegati (indice F.O.I.). Circa, infine, gli interessi, la giurisprudenza è concorde nel riconoscere anche il danno da ritardo nella prestazione e tale importo viene liquidato in via sostanzialmente equitativa attraverso il riconoscimento al creditore di una ulteriore voce che correntemente viene definitiva come “interessi compensativi” (altri li definiscono “moratori”, ma ai fini della presente valutazione le differenze terminologiche sono indifferenti). Tali interessi sono calcolati dalla data del momento generativo della obbligazione sino al momento della liquidazione. Gli interessi vanno liquidati al tasso nella misura legale che, in base alla normativa vigente, viene variato in relazione alle dinamiche dei tassi correnti sul mercato, e che è ritenuto un parametro di riferimento adeguato per determinare il danno da ritardo nella prestazione. Tali interessi, inoltre, vanno calcolati non sulle somme integralmente rivalutate (il che condurrebbe ad una duplicazione delle voci risarcitorie, come affermato nella nota sent. delle Sezioni Unite del 17.2.1995, n. 1712), e ciò comporta un calcolo di interessi alquanto inferiore a quelli calcolati integralmente per l’intero periodo. La cadenza della rivalutazione comporta il calcolo degli interessi sulla somma via via rivalutata con periodicità annuale (cfr. Cass., 20.6.1990, n. 6209, soluzione accolta, in genere, anche con riferimento alle esigenze di semplificazione dei calcoli). In tal caso, il calcolo della rivalutazione viene fatto anno per anno alla data convenzionale del 31 dicembre ed in quella data vengono computati gli interessi che, poi, sono improduttivi di ulteriori interessi e non vengono capitalizzati in alcun modo. In definitiva, le somme complessivamente dovute d sono le seguenti: A) capitale liquidato al 26 marzo 2012 (c.d. aestimatio): euro 30.000,00; B) interessi e rivalutazione: euro 2.722,66. Importo totale (A + B) dovuto al 30 giugno 2017 (c.d. taxatio): euro 32.722,66, sul quale importo sono esclusivamente dovuti gli interessi legali da quest’ultima data sino al saldo. Tenendo conto del parziale accoglimento della domanda degli attori popolari (che non comporta la soccombenza reciproca) si giustifica la pronuncia di condanna al pagamento delle spese processuali (cfr. Cass., sez. I, 19.02/3.04.2015, n. 6860) in capo alle Amministrazioni statali convenute. Queste ultime vanno condannate al pagamento delle spese processuali anche nei confronti della Regione Puglia che ha sostanzialmente aderito alla domanda proposta dagli attori popolari. Stante la diversità delle posizioni processuali, si ritiene comunque di porre una diversificazione, da operarsi ai sensi dell’art. 4 del D.M. 55/2014, nella quantificazione delle somme dovute agli attori popolari ed alla Regione Puglia. Nella determinazione degli importi vanno tenute presenti le fasi svolte sulla base di quanto indicato dal D.M. 55/2014. Le spese di ctu vanno poste a carico delle amministrazioni statali soccombenti. Nulla va invece disposto in favore della Provincia di Bari, che non si è costituita in giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa civile di primo grado iscritta al R.G.A.C. al n. 3719 dell’anno 2012, ogni contraria istanza, eccezione, deduzione disattesa, così provvede: 1. dichiara inammissibile la domanda relativa alla chiusura del CIE di Bari per intervenuta carenza di interesse ad agire; 2. rigetta la domanda di parte attrice di risarcimento del danno per le condizioni di detenzione subite dai trattenuti all’interno del centro; 3. accoglie la domanda di risarcimento del danno all’immagine subito dal Comune di Bari e dalla Provincia di Bari e per l’effetto condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t., ed il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., in solido tra loro ed in favore del Comune di Bari e della Provincia di Bari, al pagamento della complessiva somma di Euro 32.722,66, oltre interessi legali sino al soddisfo; 4. rigetta ogni altra istanza; 5. condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t. ed il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali, sostenute dagli attori e liquidate in complessivi Euro 4.835,00, quali onorari difensivi, oltre al rimborso delle spese per euro 918,09, al forfettario delle spese e IVA e CAP, se dovuti, come per legge; 6. condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente p.t. ed il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t., in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali sostenute dalla Regione Puglia e quantificate in euro 3.000,00, oltre al rimborso forfettario delle spese ed IVA e CAP, se dovuti, come per legge; 7. nulla per le spese per la Provincia di Bari; 8. pone definitivamente a carico della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Interno, in solido tra loro, il pagamento delle spese di CTU.

IL COMMENTO

di Francesca Ruggiero

Risarcito al Comune di Bari il danno all’immagine per la lesione dei diritti umani dei migranti: confermata la curvatura sanzionatorio-deterrente della responsabilità.

Il caso

Risale al marzo 2012 l’atto di citazione con cui gli attori Luigi P. e Alessio C., sostituendosi al Comune e alla Provincia di Bari ex art. 9, comma 1, D.Lgs. n. 267/2000, agivano in giudizio per l’esercizio del diritto di detti enti esponenziali a garantire il rispetto, nel proprio territorio, degli inviolabili diritti umani. I fatti contestati dagli attori popolari erano relativi al trattamento disumano riservato agli stranieri trattenuti nel Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) sito in Bari, a far data dal 2005. Le allarmanti notizie a riguardo, diffuse a mezzo stampa principalmente, avevano innescato reazioni di sdegno nella collettività tutta e, segnatamente negli attori popolari che, dopo aver inutilmente diffidato il Ministero degli Interni e la Prefettura a porre in essere tutti i rimedi necessari a rendere la struttura di cui trattasi conforme agli standards nazionali e sovranazionali previsti dall’ordinamento penitenziario, dapprima depositavano ricorso per accertamento tecnico preventivo, atto a verificare la conformità o meno del CIE agli standards suddetti, previsti a livello interno[1] e comunitario[2]. Sulla base delle caratteristiche di fatto carcerarie della struttura riscontrate dall’atp, gli attori popolari agivano in giudizio, per accertare non solo che nel CIE fosse erogato un trattamento di tipo carcerario, espressamente vietato dalla vigente normativa per i cittadini extracomunitari irregolari, ma anche che, nel Centro di Identificazione ed Espulsione fossero deliberatamente ignorati i parametri normativi vigenti per gli Istituti penitenziari statali. Gli attori popolari, pertanto, citavano in giudizio il Ministero degli Interni, la Presidenza del Consiglio e la Prefettura di Bari, affinché, tra le altre domande, fosse accolta quella di accertamento della natura carceraria del CIE e di immediata chiusura dello stesso. Infine, si domandava, non solo il risarcimento del pregiudizio subito dal Comune e dalla Provincia di Bari per la violazione, perpetrata ai danni dei migranti, dei diritti umani universali, ma anche si chiedeva la liquidazione del danno all’immagine, patito dalle medesime persone giuridiche, quali enti esponenziali delle comunità insediate sul territorio barese. Tra le domande formulate, il giudice adito rigettava, per difetto sopravvenuto di interesse ad agire, la richiesta di chiusura immediata del CIE; tale diniego veniva giustificato in virtù del fatto che nel 2016, a seguito di rivolte interne al Centro, se ne era disposta la chiusura. Quest’ultima circostanza faceva venir meno l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., per tale intendendosi l’esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile e, soprattutto, non conseguibile senza l’intervento del giudice, che deve porsi a fondamento dell’azione. Per quanto riguarda, invece, la domanda risarcitoria correlata alla violazione dei diritti fondamentali dell’individuo, di cui il CIE è stato teatro, anch’essa veniva rigettata dall’autorità giudiziaria, essendo gli attori popolari, in relazione a tale richiesta, privi di legittimazione ad agire. La domanda di risarcimento del danno derivante dalle condizioni di detenzione lesive della dignità dei trattenuti, sarebbe dovuta essere, infatti, dedotta dai diretti interessati, ovvero da coloro che tali condizioni di vita mortificanti hanno vissuto e subìto. Veniva accolta, infine, la domanda di risarcimento relativa al danno all’immagine subito dal Comune e dalla Provincia di Bari a seguito dell’insediamento sul territorio barese del CIE, insediamento, peraltro, contrario alla volontà dei suddetti enti esponenziali che, con delibera consiliare, avevano espressamente dichiarato la propria avversione a riguardo.

Le origini del danno all’immagine: l’evoluzione storica e la svolta costituzionale

Il diritto all’immagine, prima dell’avvento della Costituzione, trovava espresso riconoscimento nell’art. 10 c.c. e nella coeva legge sul diritto d’autore, agli artt. 96, 97, 98[3]. Tali disposizioni, però, si limitavano a predisporre uno strumento di tutela contro gli eventuali abusi che avessero ad oggetto l’altrui immagine. Per l’art. 10 c.c., infatti, ove l’immagine di una persona o dei suoi prossimi congiunti venga esposta o pubblicata, al di fuori dei casi consentiti dalla legge o in pregiudizio al decoro o reputazione della persona rappresentata, il responsabile dell’abuso può essere condannato al risarcimento del danno. Sostanzialmente analoga è la disciplina dettata dalla L. n. 633/1941 che vieta l’esposizione, riproduzione o commercializzazione del ritratto di una persona in difetto del suo consenso, salvo i casi espressamente previsti dalla legge. L’interpretazione formalistica di tali disposizioni aveva condotto, in passato, all’erronea oggettivizzazione dell’immagine e del relativo diritto, valorizzato unicamente nel suo profilo materiale: oggetto di tutela, dunque, si riteneva fosse esclusivamente la reale effigie della persona, così come cristallizzata in un ritratto o in una riproduzione fotografica. Il processo di materializzazione del diritto all’immagine si è sviluppato di pari passo con quello di patrimonializzazione dello stesso: si è finito per considerare, cioè, il diritto all’immagine come diritto di proprietà su tutti i propri ritratti[4], e lo si è allontanato, di conseguenza, sempre più, dall’alveo dei diritti della personalità[5]. In questo senso, in sede di liquidazione del danno relativo, si è ritenuto di dover parametrare il quantum debeatur al prezzo che l’interessato avrebbe preteso ai fini della pubblicazione del proprio ritratto[6]. In realtà, da una lettura più accorta del dato normativo emerge che, oltre ad essere tutelata l’immagine materiale del soggetto, il diritto de quo si declina anche in altra forma: la protezione cioè è garantita dall’ordinamento anche allorquando dalla riproduzione o pubblicazione dell’altrui immagine possa derivare un pregiudizio all’onore, decoro o reputazione della persona[7]. Si tratta di concetti, questi ultimi, ben distinti tra loro: l’onore corrisponde al sentimento di dignità personale che ciascuno nutre in relazione a se stesso, la reputazione, invece, implica l’appartenenza del soggetto ad un gruppo sociale, culturale o professionale determinato, in quanto corrisponde alla considerazione che il gruppo riserva al valore dell’individuo. Il decoro, infine, non attiene, al pari dell’onore e della reputazione, alle peculiarità morali della persona (a seconda che vengano percepite individualmente o collettivamente), ma piuttosto ad umane qualità estrinseche che si distinguono in fisiche ed intellettuali. Alle prime attiene il decoro fisico che è pregiudicato qualora si offenda la persona nella sua entità fisica, alle seconde quello intellettuale che viene compromesso quando oggetto di pregiudizio sia il complesso delle qualità intellettive che contribuiscono ad individuare il rango sociale dell’individuo[8]. La consacrazione del diritto all’immagine, nella sua duplice accezione, materiale e virtuale, si è materializzata, ad ogni modo, con l’avvento della Costituzione: quest’ultima, sovvertendo i precedenti equilibri, ha posto al vertice della sua scala assiologica la persona umana determinando, così, la primazia delle situazioni giuridiche personali su quelle a contenuto patrimoniale. Pur mancando un espresso riferimento normativo, il diritto all’immagine può ritenersi, seppur implicitamente, tutelato da una serie di previsioni (artt. 2, 3, 97 Cost.) che elevano al rango di diritto inviolabile quello al decoro, onore, rispettabilità e reputazione[9]. L’interpretazione della previgente normativa è stata, così, vivificata alla luce dei valori costituzionali con la conseguente attribuzione all’immagine tutelata di un significato ben più ampio di quello originario: non più solo segno distintivo e rappresentativo delle sembianze fisiche dell’individuo, ma indicativo, piuttosto, del suo modo di essere e finanche della sua personalità[10]. L’immagine trascende, dunque, da quella dimensione mortificante che la riduceva a mera proiezione esterna dei caratteri somatici della persona e si erge a vero e proprio “veicolo di diffusione di quel complesso di connotati morali, intellettuali e sociali che caratterizzano il soggetto rappresentato”[11].

Il diritto all’immagine delle persone giuridiche

Una volta liberato il diritto all’immagine dai lacci della materialità che lo correlavano necessariamente ed esclusivamente alle persone fisiche, si è potuta teorizzare l’esistenza di un danno all’immagine anche per le persone giuridiche[12]. A tale conclusione, ad ogni modo, non si è giunti agevolmente: a lungo, infatti, è stata negata la possibile configurazione di un danno all’onore, reputazione o decoro di una persona giuridica, pubblica o privata, sulla scorta del fuorviante presupposto che un ente non potrebbe percepire, analogamente alla persona fisica, il patimento emotivo conseguente all’aggressione della propria immagine. Tale orientamento restrittivo sconta, però, un’erronea premessa, ovvero quella della coincidenza del danno non patrimoniale, categoria nella quale è stato ascritto il danno all’immagine, con il danno morale subiettivo, per tale intendendosi il patema d’animo o turbamento che deriverebbe da un illecito e che sarebbe connaturato unicamente alle persone fisiche. I giudici di legittimità hanno, però, nel corso degli anni, mutato il proprio avviso ed individuato due distinti profili conseguenti alla lesione del diritto all’immagine della persona giuridica: la prima componente del danno si sostanzierebbe nelle difficoltà, conseguenti all’evento pregiudizievole, in cui gli organi rappresentanti dell’ente incorrono nell’ambito dei rapporti con i terzi; la seconda componente coinciderebbe, invece, con la deminutio, sul pianoreputazionale, patita dalla persona giuridica agli occhi dei consociati[13]. Il riconoscimento della configurabilità di un danno all’immagine in capo alle persone giuridiche private è stato ben presto esteso dalla giurisprudenza anche alle persone giuridiche pubbliche, il cui danno derivante dalla compromessa credibilità è stato ritenuto pienamente risarcibile[14]. L’ampliamento dello spatium di tutela della persona giuridica è stato catalizzato dal definitivo superamento di quella corrente interpretativa che identificava tout court il danno non patrimoniale con quello morale: nel primo sarebbero ricomprese, cioè, tutte le conseguenze pregiudizievoli sottratte ad una valutazione monetaria e non solo quelle legate alla sfera psicologica del danneggiato, connaturate, per lo più, alla persona fisica e non anche a quella giuridica. Il definitivo sdoganamento del danno all’immagine subito dalla PA è stato determinato, infine, dal contributo dei giudici contabili i quali hanno ammesso la risarcibilità di tale pregiudizio ogniqualvolta fosse compromesso il rapporto di fiducia instauratosi tra ente pubblico e cittadini. Più in particolare, si è ritenuto che l’immagine della pubblica struttura fosse minata in caso di lesione della sua credibilità, affidabilità ed efficienza. A tale risultato si è giunti facendo leva non solo sull’art. 2 Cost.[15] ma, soprattutto, sull’art. 97 Cost., posto a baluardo dell’efficienza, efficacia ed imparzialità della P.A. La compromissione dell’immagine dell’ente pubblico, evidentemente, lede la fiducia riposta dai consociati nella corretta e trasparente gestio della res publica, compromettendo così, inevitabilmente, il buon andamento della P.A.[16].

La classificazione del danno all’immagine: patrimoniale o non patrimoniale?

Nonostante ad oggi il danno all’immagine, finanche della persona giuridica, sia classificato pacificamente come danno non patrimoniale, non sempre è stato così. In una prima fase, infatti, la giurisprudenza, in particolare contabile, ha ricondotto il danno all’immagine nell’alveo dei danni patrimoniali[17]. Tale inquadramento è stato giustificato a fronte del fatto che la P.A., innanzi ad un atto lesivo della propria immagine, sarebbe costretta a sostenere spese, talvolta ingenti, necessarie a ripristinare la propria compromessa reputazione, anche mediante l’ausilio di strumenti pubblicitari e di marketing[18]. In questo senso, il danno all’immagine, pur non concretizzandosi in un’immediata economic loss per l’ente, è comunque tale da determinarne un impoverimento. La corrente interpretativa illustrata, peraltro avallata dalle Sezioni Unite[19], si fonda, ad ogni modo, sull’erronea identificazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., da cui tale orientamento ha ritenuto avulso il danno all’immagine, con il danno morale soggettivo. Tale stortura ha determinato, inevitabilmente, la riconduzione coatta all’alveo della patrimonialità di determinati diritti, come quello di cui trattasi, nonostante essi fossero evidentemente privi di contenuti patrimoniali: emblematica, in tal senso, è la sentenza della Corte costituzionale in materia di danno biologico che ammise la risarcibilità di quest’ultimo ex art 2043 c.c., letto alla luce dell’art. 32 Cost.[20]. L’interpretazione restrittiva dell’art. 2059 c.c. e del danno non patrimoniale ritenuto risarcibile solo se derivante da reato e coincidente con il transeunte turbamento psicologico che ne deriva, è stata, ad ogni modo, superata, seppur non agevolmente. Al fine di fuoriuscire dalle strettoie dell’art. 2059, la giurisprudenza aveva adoperato, infatti, diversi escamotage come l’elaborazione di un tertium genus di danno, quello esistenziale, ascrivibile nella categoria di danno non patrimoniale e costituente una sua voce autonoma rispetto a quella di danno morale subiettivo e biologico[21]. Tale concezione tripolare del danno non patrimoniale si era resa necessaria per garantire la risarcibilità di situazioni soggettive la cui lesione comportava la perdita di beni non patrimoniali che, pur non sostanziandosi in un danno morale, comunque incideva negativamente su valori costituzionalmente tutelati. La lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c. è stata, pertanto, gradualmente superata anche e soprattutto attraverso la valorizzazione di principi costituzionali che hanno imposto un’interpretazione di tale disposizione idonea a garantire la risarcibilità di posizioni giuridiche dal contenuto essenzialmente personale. La concezione tripartita del danno non patrimoniale, tuttavia, non ha avuto lunga vita: nel 2008, infatti, le Sezioni Unite sono tornate sul tema ricomponendo ad unità il danno non patrimoniale e ciò al fine di scongiurare il rischio di illegittime duplicazioni risarcitorie[22]: la risarcibilità del danno non patrimoniale è limitata dall’art. 2059 c.c. ai soli casi previsti dalla legge[23] per tali intendendosi, quelli di cui all’art. 185 c.p. che prevede la risarcibilità del danno conseguente a reato, ma non solo. In virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionalmente garantiti, infatti, l’art.2059 c.c. è applicabile anche nei casi di lesione di diritti inviolabili della persona, espressamente contemplati come tali dalla Grundnorm. In tal senso, si è ritenuta risarcibile ex art. 2059 c.c., non solo la lesione al diritto alla salute (art. 32 Cost.)[24], ma anche quella relativa al diritto alla famiglia (artt. 2, 29, 30 Cost.) che si profila ogniqualvolta dall’atto illecito derivi la perdita o la mera compromissione del rapporto parentale per la grave invalidità o la morte procurata al prossimo congiunto[25]. Anche il diritto all’immagine (in senso lato), proprio perché implicitamente tutelato dagli artt. 2 e 3 Cost., in caso di lesione è risarcibile ex art. 2059 c.c.[26], e ciò indipendentemente dal fatto che si correli ad una persona fisica o giuridica. D’altra parte sarebbe paradossale ammettere la risarcibilità di situazioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate quando inerenti ad una persona fisica e negare, invece, la medesima tutela, qualora le suddette situazioni facciano capo ad una persona giuridica: i diritti inviolabili vanno riconosciuti e preservati tanto nell’ipotesi in cui spettino a persone fisiche quanto a quelle in cui si correlino a persone giuridiche, coincidenti, queste ultime, con le formazioni sociali cui i padri costituenti hanno inteso attribuire pari dignità (art. 2 Cost.)[27]. Le posizioni di apertura sostenute dalla giurisprudenza di merito e legittimità in ordine alla configurabilità di un danno all’immagine per le persone giuridiche, in particolare pubbliche, non sembrano, tuttavia, essere state avallate dal giudice delle leggi che, nel 2010, ha privilegiato un orientamento fortemente restrittivo. La pronuncia di cui trattasi[28] è stata occasionata dalla sottoposizione al vaglio di costituzionalità (con esito positivo) di alcune disposizioni della L. n. 141/2009: quest’ultima ammette l’esperibilità, da parte delle procure regionali della Corte dei conti, di un’azione risarcitoria per il danno all’immagine subìto dalla P.A., nel solo caso in cui la condotta del danneggiante integri gli estremi di taluno dei delitti contro la P.A. di cui al Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale. Ritenendo infondate le questioni di legittimità sollevate, la Corte Costituzionale ha, in sostanza, avallato il passo indietro compiuto del legislatore che, oltre ad avere contribuito ad una regressione sul piano della tutela dei singoli, ha anche attribuito al risarcimento una chiara funzione sanzionatoria, data la subordinazione di quest’ultimo all’esistenza di un’ipotesi delittuosa. Sembra, in altre parole, che con tale decisione si sia profilata un’involuzione: il danno non patrimoniale, in tal caso coincidente con il danno all’immagine, torna alle origini e si ritiene risarcibile solo se conseguente a reato[29].

Il danno all’immagine come danno-evento o danno-conseguenza

La distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza si apprezza, principalmente, dal punto di vista probatorio: il danno-evento, infatti, si ritiene integrato ogni qualvolta la compromissione di una situazione giuridica protetta sia di per sé sufficiente a giustificare il risarcimento: nel caso cioè di danno-evento, il danno è in re ipsa e, pertanto, non è necessario darne prova. È evidente come tale categoria di danno contribuisca ad ampliare sensibilmente lo spatium di tutela del singolo in quanto evita che il torto, pur riconosciuto in astratto, sia, nel concreto, vanificato a fronte delle difficoltà dell’offeso a dimostrare il pregiudizio subìto[30]. A lungo la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha classificato in tal senso il danno biologico, immediatamente risarcibile a fronte della dimostrazione dell’avvenuta lesione dell’integrità psicofisica. Per quanto riguarda, invece, il danno all’immagine, dottrina e giurisprudenza si sono divise: secondo una parte, esso sarebbe classificabile come danno-evento[31], secondo altra, come danno-conseguenza[32]. I giudici di legittimità hanno, ad ogni modo, sconfessato la qualificazione del danno all’immagine come danno evento e hanno, invece, prediletto l’opposta tesi: il danno in questione dev’essere ricostruito come danno-conseguenza e, pertanto, dovrà essere provato e liquidato equitativamente, secondo le circostanze del caso[33]. Tale orientamento ha, senza dubbio, aggravato notevolmente la posizione processuale del danneggiato: il soggetto leso non potrà, infatti, giovarsi di alcuna presunzione ma dovrà, piuttosto, non solo provare l’entità del pregiudizio sofferto, ma dimostrare, soprattutto, l’incidenza di quest’ultimo su interessi costituzionalmente protetti[34].

Il problema della quantificazione

Quello della quantificazione del danno all’immagine e per esso, più in generale, del danno non patrimoniale, è tema piuttosto spinoso: premesso che il danno ex art. 2059 c.c. è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, ove manchino specifiche disposizioni legislative utili alla determinazione del quantum debeatur, necessariamente dovrà ricorrersi alla valutazione equitativa del giudice ex artt. 1226 c.c. e 2056 c.c. I criteri elaborati dalla giurisprudenza sono molteplici e variano a seconda delle circostanze: la giurisprudenza contabile, in relazione al danno alla reputazione subìto dalla P.A. in conseguenza al reato commesso da un pubblico funzionario, ha ritenuto rilevanti le conseguenze patrimoniali derivanti dalla condotta delittuosa del funzionario; particolare valore è stato attribuito, poi, alle funzioni svolte dall’ente pubblico in cui è incardinato l’autore dell’illecito, alla sporadicità o continuità o reiterazione dei comportamenti illeciti, alla necessità o meno di interventi riparatori dell’attività illecita, e, infine, alla gravità delle conseguenze sociali dovute alla ricaduta mediatica delle notizie del fatto illecito[35]. Nel caso di danno all’immagine subìto da una società di capitali a seguito di un ingiustificato provvedimento di sequestro, il Tribunale di Ivrea, invece, ha ragguagliato il pregiudizio sofferto all’entità del danno emergente, a sua volta corrispondente alla diminuzione di reddito derivante dal medesimo provvedimento restrittivo[36]. Altri indici sono stati elaborati in tema di danno all’immagine derivante da diffamazione a mezzo stampa, fattispecie questa che presenta innegabili nessi logici e funzionali con il caso in commento. Più in particolare, secondo la giurisprudenza, occorre valutare: le condizioni sociali del danneggiato, la collocazione professionale, il bacino di utenza, l’utile ricavato dalla pubblicazione, il clamore suscitato dalla stessa, la diffusione della notizia, le modalità di esposizione dei fatti, l’ampiezza e il risalto dei fatti diffamatori, il tempo trascorso dai fatti e l’esistenza di articoli analoghi[37]. Pur essendo tali criteri applicabili analogicamente, a prescindere, cioè, dal tipo di evento che abbia determinato il danno, evidente è la difficoltà in cui incorrono i giudici in sede di quantificazione. A tal proposito, spunti interessanti sono stati offerti dall’Osservatorio milanese per la Giustizia Civile, in occasione dei lavori svolti nell’ambito del Laboratorio Nazionale sul danno alla persona. In tal sede, 8 distinti gruppi di lavoro hanno indagato i c.d. “nuovi danni”, quelli, cioè, non espressamente contemplati dalle previgenti Tabelle Milanesi, che, com’è noto, offrivano criteri orientativi per la liquidazione dei soli danni non patrimoniali correlati a lesioni dell’integrità psicofisica. Tra le nuove tipologie di danno non patrimoniale analizzate, è stato preso in considerazione il danno da diffamazione. Nella disamina di quest’ultimo, che presenta indubbi punti di contatto con il danno all’immagine di cui trattasi, alcuni dei criteri prospettati per la determinazione del quantum debeatur hanno sollevato non poche perplessità. In particolare, oggetto di contestazione è stato il parametro dell’intensità dell’elemento psicologico del danneggiante. La critica, più in particolare, si è principalmente concentrata sul fatto che porre a fondamento della quantificazione l’elemento psicologico sotteso alla condotta diffamatoria rischia di alterare la natura del risarcimento compensativo in sanzionatorio-punitivo, che è allo stato degli atti inammissibile, come meglio si dirà infra. Un’indagine più accorta della questione ha, però, escluso l’utilizzazione dell’elemento psicologico come criterio liquidatorio in virtù del quale punire l’esecrabilità dell’animus del diffamante. Piuttosto, il dolo o la colpa del danneggiante è stato considerato come indice sintomatico della maggiore (o minore) sofferenza arrecata al diffamato, rappresentando, quest’ultima, la conseguenza dannosa dell’evento, secondo il paradigma tipico del danno conseguenza. Una volta dissipati tali dubbi, il settimo gruppo di lavoro, dedicato all’analisi del danno da diffamazione, ha elaborato indici di quantificazione approssimativi, chiarendo che si tratti non già di Tabelle ma di meri criteri orientativi. In tal senso, si è distinto a seconda del grado di intensità della diffamazione; nelle ipotesi di tenue gravità viene individuato un risarcimento compreso tra euro 1.000 ed euro 10.000; in quelle di modesta gravità, tra euro 11.000 ed euro 20.000; in quelle di media gravità, tra euro 21.000 ed euro 30.000; in quelle di elevata gravità viene individuato un risarcimento compreso tra euro 31.000 ed euro 50.000. Nella sentenza in commento, considerata la liquidazione di euro 30.000 a favore del Comune e della Provincia di Bari, potrebbero dirsi essere stati analogicamente applicati, dal giudice monocratico, i criteri orientativi illustrati, con il conseguente riconoscimento, in termini di gravità, della media intensità della condotta causativa di danno.

La multifunzionalità della responsabilità civile

L’elaborazione di nuove voci di danno ha consentito una rimeditazione profonda sulle funzioni della responsabilità civile: tale strumento non ha più l’unico e il solo compito di reintegrare il patrimonio del danneggiato. In altre parole si presenta come multifunzionale. A questa conclusione è giunta la giurisprudenza di legittimità e la dottrina più autorevole[38] che ha rilevato, nella responsabilità civile, un duplice atteggiamento espansivo. Il primo è ravvisato nell’incremento delle ipotesi di danno risarcibile; il secondo si estrinseca nella vocazione espansionistica della responsabilità, che tende ad invadere altri settori dell’ordinamento.

Si assiste, infatti, al graduale quanto inarrestabile superamento della funzione meramente compensativa della responsabilità, in favore di una che, invece, ne accentui il profilo deterrente e cioè di prevenzione rispetto ai danni. In altre parole, soprattutto nell’ambito dei “diritti secondi”[39] come quello dei consumatori o lavoratori, si è registrato un progressivo abbandono del paradigma reintegratorio-compensativo della responsabilità, a tutto vantaggio di un modello risarcitorio sensibile a diverse e più specifiche esigenze di politica del diritto. La riflessione su possibili funzioni, altre rispetto a quella precipuamente riparatoria, è stata infiammata da una recente pronuncia dei giudici di legittimità; nel luglio 2017, la Corte di Cassazione, infatti, ha ammesso, per la prima volta in Italia, la delibabilità di sentenze straniere che abbiano condannato ai c.d. punitive damages[40], muovendo proprio dall’assunto della plurima funzionalità della RC. Pur non essendo questa la sede adeguata, è bene sottolineare, comunque, la portata fortemente innovativa della sentenza citata che, interpretando in luce internazionalistica il concetto di ordine pubblico, non ha più ritenuto quest’ultimo un limite insuperabile alla riconoscibilità, nel nostro ordinamento, dei c.d. danni punitivi. Fattori di erosione della concezione c.d. monolitica della responsabilità, ovvero della teoria secondo cui l’unica sua funzione ammissibile sarebbe quella di restaurare la sfera patrimoniale del danneggiato[41], sono stati immessi nell’ordinamento con la conseguente affermazione di una visione polifunzionale della responsabilità civile. Nell’ambito di tale teorizzazione, si muove dall’assunto per cui, talvolta, la rigorosa osservanza del principio di integrale riparazione del danno subìto, su cui riposa la funzione esclusivamente compensativa della responsabilità, non è, di per sé, sufficiente a rendere giustizia al danneggiato. La proteiforme funzionalità della responsabilità si rivela in tutta la sua efficacia proprio nel caso di asimmetria tra l’entità del danno patito (molto spesso di particolare esiguità) e il vantaggio ottenuto dal danneggiante: si pensi all’ipotesi di contraffazione, di cui all’art. 125 c.p.i., e alla possibilità per il danneggiato di ottenere la retroversione degli utili, qualora il contraffattore abbia ricavato un beneficio sensibilmente maggiore del danno subìto dal titolare della privativa. Accanto alla tradizionale funzione della responsabilità, se ne distingue, dunque, almeno, un’altra e cioè quella punitiva nella sua duplice accezione: sanzionatoria e deterrente[42]. In relazione alla funzione sanzionatoria della responsabilità, benché lo ius romanorum la contemplasse pacificamente[43], la giurisprudenza, si è mostrata, in passato, piuttosto diffidente, ritenendo il modello di responsabilità in analisi culturalmente lontano dalla tradizione giuridica italiana[44]; tale ritrosia si spiega alla luce della graduale scorporazione dei profili precipuamente sanzionatori della responsabilità da quelli compensatori, scissione questa che ha determinato, nel nostro ordinamento, la netta distinzione della responsabilità civile da quella penale. Nell’ordinamento statunitense, invece, i punitive damages,sono pacificamente contemplati e sono generalmente liquidati a condizione che l’elemento psicologico del dolo (malice) sorregga l’azione causativa di danno[45]. Nonostante la riluttanza dei giudici italiani, molteplici sono, ad ogni modo, gli esempi e i modelli normativi che nel nostro ordinamento presuppongono proprio il riconoscimento, relativamente allo strumento risarcitorio, di una sua funzione vessatoria: basti pensare agli artt. 96 c.p.c. o 614 bis c.p.c., solo per citare alcuni esempi. Le Sezioni Unite, non solo nella pronuncia del luglio 2017, ma anche in quella in cui erano state chiamate a vagliare la compatibilità con l’ordinamento nazionale delle astreintes belga[46], hanno prospettato un lungo elenco di norme dell’ordinamento nazionale che suffragherebbero la tesi della polifunzionalità della RC. Si tratta di disposizioni che vivificano chiaramente la funzione punitivo-sanzionatoria della responsabilità aquiliana, a discapito della sua tipica natura compensativo-riparatoria. Ancora diversa funzione della responsabilità civile è, infine, quella deterrente o preventiva che si profila come inibitoria rispetto alla reiterazione dell’illecito. In tema, la correlazione tra il paradigma di responsabilità civile e il concetto di analisi economica del diritto ha rappresentato terreno fertile per la proliferazione di teorie ed argomentazioni in favore della funzione deterrente della responsabilità. Premessa di tali teorizzazioni è l’assunto, piuttosto elementare, secondo cui la prospettiva, per il danneggiante, di sostenere un costo elevato in conseguenza di un’eventuale azione risarcitoria del danneggiato, disincentiva ad operare se il soggetto agente, in un’analisi comparativa, ritiene inferiori agli svantaggi i potenziali vantaggi. Di contro, ove il danneggiante consideri i possibili utili derivanti dall’illecito superiori al “costo” del risarcimento, è altamente probabile che opti per l’internalizzazione di quest’ultimo, decidendo, così, di agire ugualmente[47]. La metamorfosi della responsabilità civile, riconosciuta nella sua dimensione polifunzionale dalle Sezioni Unite nel 2017, non deve, però, erroneamente indurre a credere che da ora in poi potranno essere senz’altro liquidati, anche in Italia, risarcimenti punitivi il cui terreno risulta sempre presidiato dalla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. in forza del quale alcuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non attraverso intermediazione legislativa[48]. Per usare le parole dei giudici d legittimità: “la curvatura deterrente/sanzionatoria della responsabilità civile” non può certo consentire “ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengano liquidati.”[49]. Sembrerebbe, pertanto, che l’intervento del legislatore sia imprescindibile per sdoganare definitivamente nell’ordinamento italiano tali poste risarcitorie, a meno che la condizione della copertura normativa non si ritenga soddisfatta allorquando la suddetta voce di danno sia espressamente prevista dalle Tabelle giudiziali, la cui dignità para-normativa è stata notoriamente avvalorata dal Supremo Collegio[50]. Ma questo è un altro discorso.

Il caso barese

Il tema della ridefinizione delle funzioni proprie della responsabilità civile[51] e del condizionamento esercitato, in tal senso, dalla globalizzazione economica e giuridica, si aggancia, senza dubbio, alla pronuncia in commento. Con quest’ultima, la Presidenza del Consiglio e il Ministero dell’Interno sono stati condannati a risarcire al Comune e alla Provincia di Bari il danno all’immagine, pari ad euro 30.000, causato dal discredito di cui sarebbe stato foriero il trattamento inumano e degradante riservato agli immigrati irregolari trattenuti nel CIE. Oltre ad essere stata accertata l’erogazione di un trattamento, a tutti gli effetti, di natura carceraria, in deroga, dunque, a quanto previsto dall’art. 13 Cost., le risultanze probatorie hanno rivelato la discordanza delle condizioni di vivibilità del CIE rispetto a quelle previste dall’ordinamento penitenziario: le prime, infatti, si sono dimostrate sensibilmente inferiori rispetto a quelle previste per gli istituti penitenziari statali. La gestione del Centro di identificazione ed espulsione risulta, in questo senso, tutt’altro che rispondente all’unica finalità che, invece, sarebbe dovuta essere perseguita in sede di predisposizione ed avviamento del CIE, ovvero quella di garantire l’assistenza dello straniero e la piena tutela della sua dignità in quanto essere umano. Il risarcimento del danno cagionato all’immagine della comunità territoriale, risulta, secondo il giudice monocratico, imprescindibile soprattutto alla luce della cultura di ospitalità ed apertura che caratterizza la città pugliese, di cui viene messo in risalto, tra gli altri aspetti, proprio quello della multiculturalità. L’immagine della comunità sarebbe stata, in tal caso, compromessa a fronte di un’associazione consueta, storicamente comprovata, che viene comunemente fatta tra i luoghi teatro di atrocità ed i territori che li ospitano: vengono evocate, così, Auschwitz, Guantanamo o Lampedusa, località queste che, quando menzionate, tendono a rievocare nella mente dell’ascoltatore la parte e non il tutto: rispettivamente, il campo di concentramento nazista e non la vicina cittadina polacca, la nota prigione di massima sicurezza e non la base navale cubana e, infine, il campo profughi e non invece la corrispondente isola protesa nel Mediterraneo. Nel caso barese, senza spingersi troppo oltre, fino a varcare le soglie del risarcimento punitivo (allo stato inammissibile), può affermarsi con certezza che la responsabilità ascritta ai convenuti, condannati al risarcimento, non assolve ad una funzione meramente riparatoria: la modicità della somma liquidata a titolo risarcitorio, esclude, infatti, l’idoneità a ripristinare lo status quo ante, analogamente a quanto avverrebbe ove il pregiudizio non si fosse mai materializzato. Altresì è da escludere, nel caso di specie, la possibilità di ravvedere nello strumento risarcitorio un profilo stricto sensu sanzionatorio: la condotta causativa del danno, infatti, pur essendo pregna di antigiuridicità e, senz’altro, disdicevole, soprattutto per un ente pubblico, non integra un’ipotesi delittuosa né può dirsi, con certezza, sorretta dall’elemento psicologico del dolo. Più probabilmente, nella fattispecie in analisi, considerata l’esiguità del quantum debeatur fissato dal giudice monocratico in base ad una valutazione equitativa (peraltro priva di qualsivoglia indicazione in merito ai parametri impiegati nella quantificazione), può scorgersi, in controluce, un timido tentativo dell’A.G. di impiegare lo strumento di tutela in funzione deterrente. La modestia della somma liquidata non deve confondere. D’altra parte, la storia insegna che pur quando il braccio dello Stato abbia voluto dare una risposta esemplare alla manifestazione di indicibili violenze, la responsabilità, nella sua dimensione punitiva/deterrente, non ha avuto altra funzione che quella di ipostatizzare la paura e lo sgomento di un paese: basti pensare alla strage di Bologna dell’85 e al valore puramente simbolico del maxi risarcimento a nove zeri a cui i terroristi, ovviamente nullatenenti, sono stati inutilmente condannati[52].

 

[1] L. 26 luglio 1975, n. 354; d.P.R. n. 230/2000, art. 6.

[2] Raccomandazione Rec (2006) 2 adottata dal Comitato dei Ministri in data 11 gennaio 2006.

[3] L. 22 aprile 1941, n. 633.

[4] P. Vercellone, Il diritto sul proprio ritratto,Torino, 1958, 2 ss; C.M. Bianca, Diritto civile,1, La norma giuridica i soggetti,Milano, 1990, 172.

[5] A. Ansaldo, Sub art. 10,in Il codice civile. Commentario,diretto da P. Schlesinger, Le persone fisiche,Milano, 1996, 310.

[6] Trib. Roma 20 luglio 1991, in Dir. inf.,1992, 88.

[7] Cass. 5 aprile 1978, n. 1557, in Dir. autore,1979, 38.

[8] In giurisprudenza: Trib. Milano 24 novembre 1995, in questa Rivista,1996, 226; In dottrina: A. De Cupis, I diritti della personalità,in Trattato di diritto civile e commerciale,diretto da A. Cicu - F. Messineo, IV, t. 1, Milano, 1959, 286; G. Cassano - M. Sgroi, La diffamazione civile e penale,Milano, 2011, 47 ss.

[9] Corte cost. 12 aprile 1973, n. 38, in Dir. autore,1973, 311.

[10] M. Dogliotti, in Trattato di diritto privato,diretto da P. Rescigno, vol. Persona e Famiglia,I, 2, II ed., Torino, 1999, 179.

[11] L. Bigliazzi Geri - U. Breccia - F.D. Busnelli - U. Natoli, Diritto civile, 1, Norme soggetti e rapporto giuridico,Torino, 1987, 166.

[12] A. Fusaro, I diritti della personalità dei soggetti collettivi,Milano, 2002.

[13] Cass. 24 novembre 1987, n. 96, in Riv. pen.,1989, 95.

[14] C. Perlingieri, Enti e diritti della personalità, Napoli, 2008.

[15] Corte cost. 12 aprile 1973, n. 38, in Dir. autore,1973, 311.

[16] Corte conti 14 gennaio 2008, n. 24, in Giur. it.,2008, 4, 1012; Corte conti 23 aprile 2003, n. 10, in Giur. it.,2003, 1710, con nota di M. Poto, Il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione al vaglio delle Sezioni riunite della Corte dei conti.

[17] Corte conti 18 ottobre 2000, n. 557, in Rass. giur. Umbra,2002, 399, con nota di L. Mercati, Il danno all’immagine tra contratto e torto.

[18] Cass. 27 settembre 2006, n. 20886, in Foro it.,2007, 9, c. 2484, con nota di G. D’Auria Responsabilità amministrativa per attività di natura discrezionale e per la gestione di società pubbliche: a proposito di alcune sentenze delle sezioni unite.

[19] Cass. 25 giugno 1997, n. 5668, in questa Rivista,1997, 6, 767.

[20] Corte cost. 14 luglio 1986, n. 184, in Foro it.,1986, I, c. 2053, con nota di G. Ponzanelli, La Corte costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute.

[21] Cass. 24 marzo 2006, n. 6572, in Giur. it.,2006, 1359.

[22] Cass. 11 novembre 2008, n. 26974 in questa Rivista,2009, 19, con nota di Procida, Le SS.UU. fanno il punto sul danno non patrimoniale - Un “de profundis” per il danno esistenziale; in Riv. dir. civ.,2009, II, 97, con nota di Busnelli, Le Sezioni Unite e il danno non patrimoniale; in La resp. civ.,2009, 14, con nota di Franzoni, Cosa è successo al 2059 c.c.?

[23] Cass. 15 luglio 2005, n. 15022, in Resp. civ.,2005, 1043

[24] Cass. 9 novembre 2006, n. 23918, in Giur. it.,2007, 5, 1110 ss., con nota di P. Ziviz, La sindrome del vampiro.

[25] Cass. 31 maggio 2003, n. 8827, in Foro it.,2003, I, c. 2273, con nota di La Battaglia, Danni non patrimoniali: il dogma infranto e il nuovo diritto vivente.

[26] Cass. 14 ottobre 2003, n. 25157, in Foro it.,2009, 1, 2762.

[27] Cass. 4 giugno 2007, n. 12929, in Resp. civ.,2008, 144, con nota di Palmigiani; in Nuova giur. civ. comm.,2008, I, 1, con nota di Oliari, Danno non patrimoniale alle persone giuridiche per errata segnalazione alla centrale rischi.

[28] Corte cost. 15 dicembre 2010, n. 355, in Resp. civ. prev.,2011, 290 ss., con nota di P. Ziviz, L’eco delle Sezioni Unite risuona alla Corte Costituzionale.

[29] V. Papelli, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione innanzi alla Corte costituzionale: confini e prospettive,in Giur. it.,2011, 1907 ss.

[30] Corte conti 23 aprile 2003, n. 10, in Giur. it.,2003, 1710, con nota di M. Poto, Il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione al vaglio delle Sezioni riunite della Corte dei conti.

[31] F.M. Longavita - M. Longavita, Il danno all’immagine della P.A. come danno esistenziale,Rimini, 2006, 24 ss.; C. Iurilli, La tutela dell’immagine delle persone giuridiche tra danno evento e danno conseguenza,in Resp. civ., 2008, 2, 177 ss.

[32] L. Primiceri, Il danno all’immagine come danno non patrimoniale,in Resp. civ.,2007, 7, 601 ss.

[33] Cass. 4 giugno 2007, n. 12929. In Nuova giur. civ. comm.,2008, I, con nota di S. Oliari, Danno non patrimoniale alle persone giuridiche per errata segnalazione alla Centrale Rischi.

[34] Corte cass. 11 novembre 2008, n. 26972, in Resp. e risarcimento,2008, fasc. 11, 14, con nota di Rodolfi.

[35] Corte conti 27 agosto 2001, n. 361, in Riv. Corte Conti,2001, f. 4, 139.

[36] Trib. Ivrea 22 agosto 2001, in Gius,2001, 2662.

[37] Trib. Venezia 5 giugno 2002, in Dir. eccl.,2003, II, 64; Trib. Venezia 29 febbraio 2000, in questa Rivista, 2001, 536, con nota di G. Pino, Sentenza straniera di assoluzione, presunzione di innocenza e diffamazione.

[38] C. Castronovo, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno esistenziale,in Eur. dir. Priv.,2008, 345 ss.

[39] G. Gabrielli, Categorie civilistiche e diritti secondi nella disciplina dei patti di prelazione,in A. Plaia, Diritti civili e diritti speciali,Milano, 2008.

[40] Cass. 5 luglio 2017, n. 16601, in questa Rivista,2017, 419 con nota di G. Ponzanelli, Polifunzionalità tra diritto internazionale privato e diritto privato; in Corr. giur.,2017, 1042, con nota di C. Consolo, Riconoscimento di sentenze, specie USA e di giurie popolari, aggiudicanti risarcimenti punitivi o comunque sopracompensativi, se in regola con il nostro principio di legalità (che postula tipicità e finanche prevedibilità e non coincide, pertanto, con il, di norma presente, due process of law); in Guida dir.,2017, 33, 40, con nota di Sacchettini.

[41] Cass. 8 febbraio 2012, n. 1781, in questa Rivista, 2012, 609;Cass. 19 gennaio 2007, n. 1183,in Resp. civ. prev.,2007, 9, 1890.

[42] P. Monateri, La responsabilità civile,Torino, 2006.

[43] P. Gallo, Pene private e responsabilità civile,Milano, 1996, 37; F.C. Von Savigny, Le obbligazioni,vol. II, Torino, 1912, 287.

[44] G. Ponzanelli, La responsabilità civile,Bologna, 1992.

[45] A riguardo F.D. Busnelli - S. Patti, Danno e responsabilità civile,cit.,rilevano che, particolarmente nella dottrina nordamericana, si è evidenziato che la funzione punitiva non debba essere di esclusivo appannaggio del diritto penale e che anche il diritto civile può contribuire concretamente a migliorare la disciplina dei rapporti dei consociati, soprattutto se il sistema penale mostra crepe e insufficienze.

[46] Cass. 15 aprile 2015, n. 7613, in Guida dir.,2015, 39, 79 e in questa Rivista,2015, 1155, con nota di G. Corsi, Il sì della Suprema Corte all’astreinte straniera.

[47] P. Gallo, Pene private e responsabilità civile,Milano, 1996.

[48] Cass. 22 luglio 2015, n. 15350, in Guida dir.,2015, 33, 14.

[49] Cass. 5 luglio 2017, n. 1661, in questa Rivista,4, 2017, con nota di G. Ponzanelli, Polifunzionalità tra diritto internazionale privato e diritto privato.

[50] Cass. 7 giugno 2011, n. 12408, in questa Rivista,2011, 939, con nota di G. Ponzanelli, Liquidazione del danno - le tabelle milanesi: l’inerzia del legislatore e la supplenza giudiziale.

[51] F.D. Busnelli, La parabola della responsabilità civile, in Riv. crit., 1988, 643 ss.; F.D. Busnelli, Problemi di inquadramento sistematico del danno alla persona, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 27 ss.; F.D. Busnelli - S. Patti, Danno e responsabilità civile, Torino, 2013, 41 e ss.; G. Pedrazzi, La parabola della responsabilità civile tra indennità e risarcimento, Liber Amicorum per Francesco D. Busnelli, Milano, 2008, 651 ss.

[52] M. Franzoni, Strage del 2 agosto 1980 e risarcimento allo Stato,in questa Rivista,2015, 7, 713 ss.

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